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Nonno Steno Blues

Nonno Steno Blues

Nonno Steno Blues

(settembre 2003)

versione elettrica registrata in soffitta

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Voce e armonica: me medesimo
Chitarra elettrica: Omar Ferlini
Batteria, chitarra elettrica solista e basso: Lorenzo Bertolini

versione solista dal vivo (testo e traduzione magicamente incorporati nel video)

Me ó mia capì
cum’èla che in Formula Uno
i ghe mèt dès seconcc
a cambià quater góme
e me gh’embrighe ‘na meşa giurnada
E pó dopo a Siumache
ghe tirei mia şó
i punt de la patént?
Schumacher el pöl nà a dà via el cül
perchè me nono el g’à sèmper resù
nel nono Steno Blues

Io non ho mica capito come mai in Formula 1 ci mettono dieci secondi a cambiare quattro gomme e io ci metto una mezza giornata. E poi a Schumacher non gli tirano giù i punti della patente? E Schumacher può andare a dar via il culo perchè mio nonno ha sempre ragione nel Nonno Steno Blues 

Me ó mia capì
i m’ìa dit ch’i m’alsàa la pensiù
me ó vist gnanca ‘n franc
ma me chel guèren che
a me el m’è mai piasì
Ma me l’ó mia vutà
perché me ale elesiù
ó vutà sì
L’era el referendum ma gh’è mia distinsiù
perchè me nono el g’à semper resù
nel nono Steno Blues

Io non ho mica capito, mi avevano detto che mi alzavano la pensione ma io non ho visto una lira, ma a me questo governo non mi è mai piaciuto. Ah, ma io non l’ho votato perchè alle elezioni ho votato SI’. Era il referendum ma non c’è distinzione perché mio nonno ha sempre ragione nel nonno Steno blues 

Me ó mia capì
gh’è mia pö i ciclisti de ‘na ólta
chi là sé chi se rampegàa
chesti che i g’à de quéle bici
che le va sö de per su cunt
Chi la i fàa di quatersént chilometri
me fó ‘na fadìga
me scuraie a ‘na ‘n piaşa
E Di Luca l’è n’ureciù
ma me nono el g’à semper resù
nel nono Steno Blues

 Io non ho mica capito, non ci sono più i ciclisti di una volta, quelli là sì che si arrampicavano, questi hanno di quelle bici che vanno su da sole. Quelli là facevano quattrocento chilometri, io faccio una fatica, mi stanco ad andare in piazza. E Di Luca è un orecchione, ma mio nonno ha sempre ragione nel nonno Steno blues 

Me ó mia capì
cum’èla che se te gh’è la presiù
e te gh’è mia da magnà tant
g’ó de magnà póc aga me
Nives, cusa ghe intre me?
Nives, te sè na bursa
Nives, te sè ‘n lampadare
Nives, te sè un rosare
E me nona Nives i è sinquant’agn che la ciapa sö
però me nono el g’à sèmper resù
nel nono Steno Blues

Io non ho mica capito, come mai se hai la pressione e non devi mangiare tanto, devo mangiare poco anch’io. Ma Nives, cosa c’entro io? Nives, sei una borsa, Nives sei un lampadario, Nives, sei un rosario! E mia nonna Nives son cinquant’anni che le sente perchè mio nonno ha sempre ragione nel nonno Steno blues

in omaggio per chi è arrivato a leggere fin qua in fondo, una vecchia versione live

La memoria delle parole

La memoria delle parole

Sabato 28 Gennaio
ore 21:30
Partecipazione a
La memoria delle parole
incontro-lettura-spettacolo con
AnnaMaria Ercilli, Alfredo Gazzina, Angel Galzerano, Michele Gallitto
a cura di Valeria Raimondi e Fabio Barcellandi

al Caffè Galeter, via G.Guerzoni 92/h
Montichiari (BS)

Il debito

Il debito

Il debito

racconto pubblicato su gammm.org e letto in occasione di Ricercabo 2011, da cui è tratto il video qui sotto

Nel paese, proprio su in cima, c’è la chiesa, e dentro la chiesa c’è la Beata Paola, che è la protettrice del paese. Non è santa, solo beata, fa quel che può per proteggere, si dà da fare abbastanza, dicono. La Beata Paola è proprio lì. Anche se morta da cinque secoli e passa, forse sei, non so, il suo corpo è ancora immacolato, in bella vista dentro una teca. Che sia immacolato è quello che dicono ai bambini a dottrina, ma se i bambini guardano, almeno quelli più acuti, si accorgono che c’è qualcosa che tocca. O un pochino è deteriorata, o se era così anche da viva, con poca pelle tutta secca abbarbicata alle ossa, senza occhi, con tutti i denti belli in vista, allora c’è da credere che s’era fatta suora per quello. Perché, insegnano ai bambini, lei era nata in paese o lì vicino, si era fatta suora, il diavolo aveva cercato di farla cascare dalle scale, lei faceva i miracoli, tipo non cascare dalle scale neanche se la spingeva il diavolo e preservare il raccolto. Più o meno questo è quanto sulla Beata Paola. Lo sanno tutti perché te lo insegnano da bambini.

Nel paese, un po’ più in giù, c’è anche un bar che non fa miracoli di nessun tipo, fa il bar e basta. Il padrone era il Franco, non era beato neanche un filo, anzi, lui diceva addirittura che secondo lui la Beata Paola non era mica immacolata, e avanzava gli stessi dubbi anche su una buona parte delle rappresentanti di questa e altre religioni. Con lui le suore a dottrina si eran anche date un bel daffare, ma non l’avevan persuaso per niente.
Ecco, i rapporti tra il Franco e la Beata Paola erano restati all’apparenza gli stessi finché non è morto il Franco, mica tanti anni fa. Una su, uno un po’ più giù, uno dietro un bancone, una in una teca, ognuno faceva la sua vita. In apparenza, però.
Perché quando mica tanti anni fa è morto il Franco i suoi parenti avevano deciso di vendere il bar, che avevan trovato uno che voleva farci dentro un negozio di attrezzatura da subacqueo che poi ha rivenduto a uno che c’ha rifatto un bar, e si eran messi a smontare tutto, a decidere cosa vendere ai rigattieri, cosa tener da conto, cosa buttar via. Quando han tirato via la cassa, che c’erano ancora dentro mille lire di quelle grandi piegate in sei parti, dio solo sa da quanto tempo, sotto han trovato una roba un po’ strana: c’era un quadernino nero con scritto sopra Debiti, uno di quei quaderni che si usavano per farsi a mano le rubriche dei numeri di telefono, quelle con le lettere dell’alfabeto dalla parte. Insomma, fattostà che il quadernino era tutto vuoto, a parte che sotto la lettera B c’era segnato in bella calligrafia Beata Paola deve 100 lire.

Era nato così uno dei misteri più grossi del paese. Nessuno ricordava niente che potesse spiegare il fatto. Era ben strano, questo fatto, si dicevano: la Beata Paola è morta da un bel po’, come faceva a dover dei soldi al Franco? C’era uno che diceva che lui l’aveva evocata in una seduta spiritica, ma non spiegava il fatto delle 100 lire, ed era una tesi debolissima anche perché tutti sapevano che il Franco non ci credeva, a quelle robe lì. Il professore, che era quello più razionale di tutti, supponeva che lui avesse segnato quel nome intendendolo piuttosto come soprannome di qualcun altro, o meglio, di qualcun’altra. A quel punto, più del nome stesso, restava un mistero l’esistenza del quadernino, perché il Franco non voleva che la gente fosse in debito con lui e quindi o si faceva pagare con prestazioni d’opera, tipo dal Sogno si faceva aggiustare le scarpe, dall’Arrigo si faceva fare una credenza, e via così, o si affidava al baratto, o, se proprio, tirava fuori la doppietta da caccia da sotto il bancone e sparava allo scroccone. La doppietta era carica coi pallini da uccellino e lui mirava di solito verso i piedi, a una certa distanza, insomma, non voleva mica far male sul serio a nessuno, gli piantava solo due o tre pallini innocui che bastava una pinzetta e lo iodio ed eri già a posto. Lui questo sistema lo vedeva come equivalente al pagamento, diceva non andrò mica in rovina per le 300 lire che mi deve questo qua, gli sparo, mi diverto un po’ e siam pari. Era un sistema che conoscevano tutti, c’erano un paio di scrocconi che avevan deciso che valeva la pena farsi sparare e avevan dentro così tanti pallini che alle volte non potevano neanche entrare in banca che il metal detector andava giù di testa, iniziava a suonare che si sentiva a stare al bar del Franco, e il Franco rideva e diceva, ah, 300 lire che son state un investimento. Franco era una buona persona, gli piaceva divertirsi. E la storia del professore non stava in piedi: la Beata Paola doveva essere la Beata Paola, non un’altra persona, altrimenti al limite gli avrebbe sparato. Anche se era una donna. E poi era improbabile che fosse una donna perché in quel bar lì le donne ci andavano poco volentieri, a parte la Graziana, che era una che si faceva sparare, ma è un altro discorso.

Di fronte al vuoto della logica, l’uomo subito ha un po’ paura, poi capisce che è lì che tocca a lui.

Era nata così una delle più grandi leggende del paese.
Era estate, un sacco di anni fa. Una di quelle notti che c’è un caldo da far paura, un’afa che toglie il fiato, neanche un filo di vento, la gente sta tutta a letto a girarsi ma suda e non riesce a prender sonno, neanche con le finestre aperte. Se uno grida da una parte del paese, dall’altra si sente. Ogni tanto, infatti, due si chiamano, a un chilometro o due: te dormi?, no e te?.
Il Franco aveva il bar aperto, perché tanto dormire non dormiva mai, col caldo. Aspettava che magari venisse qualcuno a prender qualcosa da bere, saran state le undici, undici e venti.
Dentro la teca, il corpo della Beata Paola pativa un umido che le dava un fastidio che dio solo lo sa, le sembrava di rigonfiarsi tutta, che le si sbriciolassero le ossa, puff. Allora apre la teca, è un po’ stranfognata, si mette in ordine con le mani ossute, esce dalla chiesa col suo vestito da suora che ha sempre addosso, e va al bar.

Il Franco vede la Beata Paola che arriva verso il bar, la riconosce, non è che ci siano tante possibilità, da bambino l’ha vista tante volte. Non è immacolato, il suo corpo, pensa. Il secondo pensiero che gli viene è che deve far proprio un gran caldo se s’è svegliata anche lei. Il terzo è che lui a quelle robe lì non ci crede.
La Beata Paola va dentro, Buonasera ragazzo, dice. Il Franco dice, Buonasera, cosa ci servo? La Beata Paola dice Una spuma bianca da cento, grazie. Lui la versa, intanto si chiede come fa a sapere che esiste la spuma, ci sarà stata anche ai suoi tempi, lei la beve e fa Bon, adesso torno su, arrivederci. Lui la guarda un po’ intanto che fa i primi due passi lenti, non ha mica pagato. Tira fuori la doppietta coi pallini da uccellino e fa per sparare, poi ci pensa. Ma sarò mica scemo, si dice, a sparare alla Beata Paola, io non ci credo mica a quelle robe lì. Mette via la doppietta e rimane lì a grattarsi la testa. Ormai è andata così, lui non ci crede allora deve essere un’allucinazione, cosa spari, a un’allucinazione. O se non è un’allucinazione, allora era la Beata Paola, e cosa spari, alla Beata Paola. Poi guarda il bancone. C’è un bicchiere vuoto, lo lava e lo mette via.
Chi ci crede, pensa, se la racconto, sta roba, che non ci credo nemmeno io?

Il giorno dopo va in cartoleria, prende un quaderno di quelli per la rubrica del telefono, ci scrive Debiti e segna in bella calligrafia Beata Paola deve 100 lire. Lo mette sotto la cassa, e lo lascia lì, non lo usa più.

Di per sé non era mica una gran leggenda. Sì, un bell’aneddoto, quello sì. Comunque era la versione ufficiale dei fatti. C’eran delle correnti di pensiero, in paese. Ce n’eran di quelli che ritenevano il fatto che la Beata avesse chiesto una spuma fosse la prova dell’onniscienza di chi è salito al cielo, altri che ritenevano che fosse onniscienza a metà, perché la spuma non è che disseti poi molto. C’eran gli scettici, che vanno dietro anche adesso a dire che basterebbe aprire la teca e vedere se ci sono tracce di spuma sulla Beata, visto che è difficile che l’abbia assimilata e espulsa, messi come sono messi i suoi organi. Ovviamente la curia non ha mai concesso le analisi. Ce n’eran di quelli che non ci credevano, e dicevano che il quadernino col debito era uno scherzo del Franco, l’aveva fatto apposta per farlo trovare e lasciare la gente a chiedersi cosa significava.

Ognimodo, gli eredi del Franco han deciso un bel giorno di calcolare gli interessi sulle cento lire e di citare in giudizio l’ordine di religiose a cui apparteneva la Beata Paola.
In tribunale, di fronte alle prove, l’avvocato delle suore ha proposto il patteggiamento, alla fine suo nipote del Franco ha sparato coi pallini da uccellino alla madre superiora.

Che ure èle?

Che ure èle?

Che ure èle?

Una traduzione dal romagnolo del grande Raffaello Baldini.

(Che or’èll?, da Ad nòta, p. 113)

La traduzione in italiano è quella curata per la sua poesia da Baldini stesso salvo lievissimi adattamenti.

Bè, ma ‘l Campanìl de la Césa el dré a dà i nömer del lòt?
prima le do e mès, adès el suna le dés,
el mio el fa le tre, l’è fermo,
e la sveglia, figüret, la segna le öndes,
se véd che gh’è finì la pila,
spèta, che i g’à putà la piòpa, che,
se ved finamai el Turiàs, chesta ché l’è bèla,
el fa mesdé, èi deentà töi màt i urlòi?
«Caterina, che ure èle?» «Ah, só mia,
me só indurmensada, Liana, che ore sono?
ma guarda l’orologio,
come che non ce l’hai, l’èt pèrs, aga quél?
se ‘l sa tu pader, ensóma, me dise, el témp che ó durmì,
le sarà sì e no le quater», «Ma me, a me
me ucór l’ura giösta», spèta, de sota
pasa argü, «Medeo, va’ là,
gh’èt l’ura precisa? che che se capìs pö gnint»,
«Eh, me piasarés, ma ó purtà l’urlòi iér a fà giöstà,
ma sarà le sinc e ‘n quart, sinc e mès»,
«Ö, bèle le sinc e mès? sèt sicür?», «Arda té,
ale sinc sie ‘n piasa», «L’è istés,
grasie l’istés, me me ucór l’ura precisa»,
eco, Ghidini, la me la dìs lü,
«Luigi, ‘l me scüse, lü sal mia l’ura?», «Ma cusa öt ch’en sape,
g’ó utantün agn, uramai l’è semper l’ura
che me par a me», sé, chesto ché uramai el gh’è pö,
pasiénsa, la dumande al Giacumì
ch’el ria adès, «Giacomo, dim tè,
che ure èle?», «Le ses e mes», «El vardet mia l’urlòi?»
«Me ghe l’ó en de la testa, l’urlòi», ma el pusibol,
s’èi mis töi d’acordi, che? che se pöl mia
saì l’ura, e che l’ater che, c’èl? Curdiöl,
«Armando, gh’èt l’urlòi?», «G’ò n’urlòi, mé,
che se te m’en déset üno d’òr el cambiarés mia,
me l’à dat me nòno, ch’el fasìa el feruviér»,
«Sé, ma mé vulie sul saì», «El tóche mai,
el le carghe e lü ‘la va, el sbaia gnà d’en minü,
l’è mia cuma la roba ch’i fa adés, me, chesto ché
l’è n’urlòi, che s’el segna le sèt e ‘n quart,
i è le set e ‘n quart aga per el Signùr», «Ens­­­­­óma
me diset che ure ele u no?», «T’el dise sübit,
bé, ma ‘n du el nà? endua l’ói mis? che a Mantua
ó vardà l’ura, che ‘t venga ‘n fülmin!», «Cusa gh’è?»
«I me l’à ciàa, el me urlòi, i me l’à ciàa,
che ó vist ‘na bröta facia ‘n sö la curiera,
pó l’autista el g’à picià şó na frenada, l’è sta lü,
a, ma me el denünce, me, ma l’è che adés
cusa öt denüncià, chisà ‘ndu l’è el me urlòi
a che l’ura ché, che l’è un valore, i ne fa mia pö isé,
delinquént, ma me el cunóse, me se l’incuntre,
el g’à de pregà de mia incuntràm», che
nóm sèmper pès, però spèta, che ria ‘l Curniöl,
«Fèrmet ‘n mumént, Albino, che ure èle?», «L’è tarde»,
«Ó capì, ma che ure èle?» «’A che te l’ó dìt,
l’è tarde», «Ensóma, ma che ure èle?», «L’è sèmper tarde,
e pö te la fè lónga, pö vé tarde».

Dà i numeri del lotto il Campanile della Chiesa? Prima le due e mezzo, adesso suona le dieci, il mio fa le tre, è fermo, e la sveglia, figurarsi, segna le undici, si dev’essere scaricata la pila, aspetta, che di sopra hanno potato il pioppo, si vede fino al Torriazzo, questa è bella, fa mezzogiorno, sono diventati tutti matti gli orologi? “Caterina, che ore sono?”, “Non lo so mica, mi sono addormentata, Liana, che ore sono? ma guarda l’orologio, come che non ce l’hai, l’hai perso? Anche quello? se lo sa tuo padre… che avrò dormito, io dico, saranno sì e no le quattro”, “Ma a me mi ci voleva l’ora giusta”, aspetta, di sotto passa qualcuno, “Amedeo, va’ là, hai l’ora buona, che qui non si capisce più niente”, “Magari, ma portato ieri l’orologio a far aggiustare, ma saranno le cinque e un quarto, cinque e mezzo”, “Già le cinque e mezzo? Sei sicuro?” “Fai tu, alle cinque ero in piazza”, “E’ lo stesso, grazie lo stesso, ma io ho bisogno dell’ora precisa”, ecco qui Ghidini, me la dice lui, “Luigi, sapete l’ora?” “Cosa vuoi che sappia, ho ottantun anni, ormai è sempre l’ora che pare a me”, questo qua è andato in bambola, pazienza, lo domando a Giacomino che passa adesso: “Giacomo, dimmelo tu, che ore sono?” “Le sei e mezzo.” “Non guardi l’orologio?” “Ce l’ho nella testa, io, l’orologio”, ma è possibile, si son messi tutti d’accordo qui? Che non si riesca a sapere l’ora, e quest’altro chi è? Cordioli, “Armando, hai l’orologio?”, “Ho un orologio, io, che se tu me ne dessi uno d’oro non farei cambio, è di mio nonno che faceva il ferroviere” “Io volevo solo sapere”, “Non lo tocco mai, lo carico, e va, non sbaglia di un minuto, altro che la roba che fanno adesso, io, questo è un orologio, che se segna le sette e un quarto, sono le sette e quarto anche per il signore”, “Insomma, mi puoi dire che ore sono?” “Te lo dico subito, ma dov’è andato? dove l’ho messo, che a Mantova ho guardato l’ora, che ti venga un colpo!”, “Cos’è stato?”, “Me l’hanno rubato, il mio orologio, me l’hanno rubato, che ho visto una brutta faccia sulla corriera, poi l’autista ha fatto quella frenata, è stato lui, ma lo denuncio, io, è che a quest’ora, cosa vuoi denunciare? Chissà dov’è il mio orologio a quest’ora, che è un valore, non li fanno più, delinquente, ma lo riconosco, io se l’incontro, deve pregare di non incontrarmi”, qui è sempre peggio, però aspetta che arriva il Coniglio, “Fermati un momento, Albino, che ore sono?”, “E’ tardi”, “Ho capito, ma che ora è?”, “Te l’ho pur detto, è tardi”, “Ma che ore sono?”, “E’ sempre tardi, e più la fai lunga più viene tardi”.

Lettera aperta al presidente Monti

Lettera aperta al presidente Monti

dal Voltapagina del Dicembre 2011, pag. 11

Egregio Presidente Monti,
io non sono un grande esperto di economia ma ugualmente voglio mettermi a disposizione per risollevare il Paese dalla tragica situazione in cui versa. Le indirizzo pertanto tramite le pagine di questo giornale una lettera aperta che spero terrà in considerazione.
Vorrei umilmente avanzare una proposta semplice per uscire dalla crisi: la prima mossa da fare sarebbe porre fine alla sanguinosa Guerra dei Cachi che rovina l’autunno di ogni famiglia italiana, mettendo in insanabile conflitto anziani che obbligano figli e nipoti a raccogliere i cachi e figli e nipoti stessi, obbligati a portare con sé la totalità del raccolto, che ovviamente non piace a nessuno, e prodursi in vani tentativi di sbolognare i cachi a lontani conoscenti in segno d’affetto, conoscenti che a loro volta cercheranno di rifiutarli sdegnosamente causando il default del sistema Caco, che marcisce nelle cantine delle famiglie italiane insieme ai BOT.
Tutto questo accade perché il caco è un frutto che nessuno sano di mente riesce ad apprezzare. Il fatto che quasi tutte le nostre famiglie siano cadute nel bieco tranello del caco quando esso sembrava rappresentare un sicuro investimento per l’avvenire e ne abbiano piantato uno in ogni giardino, ignorando le nefaste conseguenze future, ha creato un divario tra domanda di cachi e offerta di cachi che è andato al di là di ogni previsione dei mercati causandone la svalutazione totale. Con l’andare del tempo lo spread tra il rendimento di una pianta di ciliegie e un caco ha messo in ginocchio le nostre famiglie, superando il milioneduecentosedicimila punti e culminando nel tristemente famoso lunedì nero del 1994, quando un uomo esasperato rovesciò tre cassette di cachi sul Raccordo Anulare, causando un tamponamento a catena e segnando indirettamente l’inizio dell’era Berlusconi.
La mia proposta, non del tutto dissimile da certe operazioni degli speculatori finanziari, ma assai più democratica, è quella di quotare in borsa i cachi come titoli obbligazionari, in modo che assumano un valore, per quanto puramente immaginario, e rilancino il sistema Paese fungendo da volano per la ripresa economica.
Superando così l’antico concetto di caco come frutto senza valore intrinseco e operando questo piazzamento che lo faccia valere come puro prodotto finanziario, i nostri anziani potrebbero godere di un plusvalore sulla loro pianta di cachi, i nipoti verrebbero pagati per raccoglierli e al posto di assistere come ogni anno all’orrendo balletto dello scarica-caco i nonni potrebbero depositare carrettate di cachi a Piazza Affari. Solo così l’Italia potrà risorgere e tornare ricca e competitiva, equa e libera dal giogo delle banche e degli speculatori.
E, soprattutto, nessuno dovrà più mangiare cachi.

De Bu – Concerto a Cavriana

De Bu – Concerto a Cavriana

Domenica 18 Dicembre
De Bu #11
All’interno di Natale in Villa
Rassegna invernale di note, letteratura e buonumore
organizzato da Dolce Marilyn
Cantine di Villa Mirra, Cavriana (MN)
ore 17:30

con Omar Ferlini e Lorenzo Bertolini

prima di noi, Lorenzo Mari presenterà l’antologia “La generazione entrante. Poeti nati negli anni ottanta”.
dopo di noi, degustazione di tè.

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