Gentile direttore di Voltapagina,
vorrei proporre dalle pagine di questo giornale una nuova legge elettorale per garantire in futuro la governabilità dell’Italia. Già avevo proposto una riforma per uscire dalla crisi e non sono stato ascoltato, con le nefaste conseguenze che avete tutti sotto gli occhi. Quindi, io se fossi in voi mi darei retta.
È chiaro che per governare saldamente il paese serve la maggioranza assoluta sia alla Camera sia al Senato: per essere sicuri che questo avvenga ad ogni tornata elettorale, è di fondamentale importanza che dopo le elezioni i gruppi parlamentari si diano appuntamento al Circo Massimo e da lì partano di corsa a seconda del ramo di appartenenza alla volta o della Camera o del Senato.
Una volta che sarà entrato di corsa a palazzo Montecitorio e a palazzo Madama un numero di parlamentari tale da garantire il numero legale, questi si barricheranno vivi nell’emiciclo, lasceranno passare due giorni mentre gli altri busseranno insistentemente contro il muro, infine si conteranno. Ovviamente saranno rimasti solo i parlamentari più giovani e aitanti. Se nessuno dei gruppi parlamentari avrà raggiunto la maggioranza assoluta, il gruppo che si trova ad avere la maggioranza relativa potrà far calare dalle finestre un numero congruo di propri rappresentanti al fine di poter governare con stabilità, nel nome del ricambio generazionale e della riduzione del numero dei deputati.
Nel caso in cui Camera e Senato presentino due maggioranze diverse si potrà procedere con la seconda fase di selezione, che consisterà nella tortura medievale dell’Autogrill: il buffet dei palazzi di governo verrà rifornito di sola Rustichella finché non venga a verificarsi un numero di ricoveri forzati o decessi tale da garantire una maggioranza.
Questa è la parte di riforma che riguarda il passaggio tra l’esito delle urne e la formazione di un governo. Ma l’altro grosso problema della democrazia italiana sono gli italiani che votano. Il principio, assai democratico ma dagli esiti spesso disastrosi, che tutti hanno diritto di voto e che ogni voto ha lo stesso valore ha causato a mio avviso abbastanza danni. Il voto di una persona intelligente, formata e informata non può valere quanto quello di uno che guarda Pomeriggio Cinque. Purtroppo, sarebbe una sorta di abuso di potere concedere il diritto di voto solo a chi non guarda Pomeriggio Cinque; e sarebbe comunque puro arbitrio scegliere di escludere chi guarda Pomeriggio Cinque e permettere di votare a chi guarda L’Isola dei Famosi.
Pertanto nella mia proposta di legge elettorale la soluzione è tanto banale quanto efficace: esprimere il proprio voto dovrà essere un’operazione sommamente complessa.
Ogni elettore dovrà recarsi alle urne e ritirare il libretto di istruzioni per il voto, un corposo manualetto di una cinquantina di pagine. Una volta mandate a mente le istruzioni, l’elettore andrà dal Presidente del proprio seggio che gli consegnerà la propria matita copiativa, un pacco dell’Ikea, la scheda e la mappa con le indicazioni su dove costruire la propria cabina elettorale (a una distanza di almeno seicento metri dal seggio e preferibilmente sopra una pianta ad alto fusto). Nessuno dei componenti del seggio potrà dare indicazioni. Nel segreto della propria cabina, peraltro costruita con grande soddisfazione dal medesimo, l’elettore dovrà esprimere il proprio voto e indicare la propria preferenza traslitterando il nome del candidato prescelto in cirillico. Infine la scheda dovrà essere ripiegata fino ad ottenere l’origami di un tricheco. La cabina dovrà essere smontata e riconsegnata al Presidente del seggio.
Solo chi riuscirà ad interpretare ed eseguire correttamente tutte queste operazioni, illustrate nel manuale, avrà espresso un voto valido: il diritto di voto sarà sì garantito a tutti, ma solo chi si dimostrerà in grado di comprendere ed eseguire una serie di istruzioni dettagliate riuscirà a votare.
E finalmente vincerà la democrazia.
Secondo i saggi del paese, riuniti in seduta plenaria al bar della Ida, mandare la Giovanna in autostrada era una roba assurda. Assurdo come se John Charles sbaglia un gol a porta vuota, diceva uno. Assurdo come se Fanfani domani mattina dice che è comunista, dice un altro. Assurdo come se mandano un cane nello spazio, dice il terzo. Orco, questa è grossa, dicono gli altri.
Alla fine degli anni ’50 in paese di donne che guidavano c’era solo la Giovanna, che era una ragazza molto intraprendente. Usava la 600 nuova di pacca di suo marito, che aveva sempre una gran paura a fargliela usare. Lui l’aveva vinta con un tredici da spettacolo al Totocalcio l’anno prima. Siccome per indovinare Taranto-Legnano, che lui proprio non aveva idea di cosa mettere e difficilmente avrebbe saputo collocarle su una cartina geografica, si era fatto aiutare dalla Giovanna, era parso giusto che anche la Giovanna prendesse la patente e potesse adoperare la 600. Più che aiutare, la Giovanna era in cucina e lui le aveva gridato Giuana, uno, due o ics? e lei aveva detto ics cosa vuol dire? ma lui l’aveva presa per buona lo stesso. Lei, da donna intraprendente, rivendicava tutti i meriti del tredici.
Non guidava mica male, la Giovanna. Ma andare in autostrada era una sfida contro le leggi del mondo. Va detto che di autostrada non ce n’era mica tanta. Soltanto da Brescia a Milano, poi basta. E perché non può guidare tuo marito?, si chiedevano i vecchi al bar. Perché, dice lei, s’è fatto male a un braccio e non riesce. Perché non ci vai in treno?, le domandavano. E lei diceva: perché devo portare là una valigia molto pesante, io non riesco a portarla e mio marito s’è fatto male al braccio e poi devo portarla mica a Milano, ma a Legnano, è scomodo col treno.
I vecchi restavano perplessi.
Cosa c’è nella valigia pesante? Una macchina da cucire di quelle moderne. E cosa la porti a fare a Legnano? Dalla zia. E perché devi portarla alla zia? Perché lei non riesce a venirla a prendere, non ha mica la patente. Sì, ma perché non se ne compra una là? Perché questa qua è sua, l’ha comprata prima di andare a star là e ci tiene tanto, e ha bisogno questa settimana.
Ecco, ci son delle robe che uno fa e dimostra che si possono anche fare. Si possono anche non fare, ma si possono fare che va bene uguale. Non so, il primo che si è stufato della scrittura bustrofedica e ha detto: oh, ma se qua quando andiamo a capo ricominciamo ancora a sinistra e andiamo verso destra non vien mica più comodo? E gli altri avran detto: proviamo pure, vediamo, ma dentro lo sapevano che non funzionava. Il primo che ha attaccato la chitarra a una spina. La Giovanna.
I saggi al bar erano sconvolti. La Giovanna andava in autostrada. Suo marito no, stava a casa. Son mica scemo, diceva lui.
La Giovanna si fa aiutare da dei parenti a mettere la macchina da cucire sulla 600 e passa dalla piazza a bere il caffè prima di partire. Il paese è tutto riunito per la punzonatura e il via. La salutano come se non dovessero rivederla mai più. Addio, addio. C’è il sindaco con la fascia, il prete di nascosto le dà l’estrema unzione. Non c’è un clima di gran fiducia.
L’Omero, uno dei saggi, fa un tentativo: Giovanna, se vuoi guido io. No Omero, grazie, dice la Giovanna, sei gentile ma non ti faccio guidare, sei cieco. Omero ci rimane un po’ male, lui sa per certo che le avrebbe salvato la vita, si gira e ribalta due tavolini del bar della Ida.
La Giovanna parte, il paese sventola i fazzoletti. Quando la nuvola di polvere si abbassa c’è un silenzio che sembra di essere in mezzo ai campi d’inverno alla mattina presto. Tutti si guardano.
Si dan l’appuntamento per le sette di sera, che la Giovanna, se tutto va bene, dovrebbe arrivare a quell’ora lì e loro sono un po’ in pensiero. Prima che vadan tutti via da un tavolino del bar della Ida un saggio col giornale dice agli altri: vè, hai visto qua? I russi han mandato un cane nello spazio. L’Omero guarda l’orizzonte, senza vederlo. Si gira verso gli altri saggi. Il volto gli si illumina.
Siam più avanti noi, dice.
La sera la Giovanna arriva puntuale, il paese trabocca di gioia come il giorno che son andati via i tedeschi. Il medico le misura la pressione, le fa dire trentatrè, le sente il cuore. Alza la testa: «È viva!». Ma tutti sanno che è solo sopravvissuta.
«Ve l’avevo detto che siam più avanti noi, il cane è morto!»
Omero si mette la mano sul cuore e canta la Canzone del Piave. Gli van tutti a dietro.
Sullo scorso numero di Voltapagina abbiamo letto un articolo che provava scientificamente quanto faccia bene, alla mente e al corpo, il gioco delle bocce. I benefici delle bocce sono talmente evidenti che quasi non richiedono alcuna giustificazione teorica. D’altra parte, ci pare opportuno con il presente articolo rendere onore anche a un altro sport che aiuta a tenersi in salute ad ogni età: la briscola.
La briscola, prima di tutto, come diceva il pensatore cretese Trischitalone, è l’archè, il nome col quale i filosofi greci chiamavano il principio da cui deriva l’intero universo.
Filippo, il medico di Alessandro Magno, sosteneva che la briscola sollecita l’attività delle dita, degli avambracci e stimola l’attività neurologica che si declina anche nella speculazione metafisica. A tutti questi benefici va aggiunta l’importanza della briscola per la colonna vertebrale, stimolata quando ci si china per raccogliere una carta che è caduta per terra.
Un celebre trattato di Adelardo di Bath, il De ludo briscolatorio, esalta la briscola come sport che richiede virtù intellettuali, abilità manuali e tantissima concentrazione. Per Adelardo la briscola, un’attività che persone di diverse età possono svolgere insieme, è anche uno sport assolutamente non violento a meno che i giocatori non si arrabbino e inizino a picchiarsi. Anche filosofi più vicini a noi hanno apprezzato la briscola: ad esempio, Karl Marx vedeva nel due di briscola l’immagine del proletariato urbano che lotta contro la borghesia.
Ma i dati più interessanti ci arrivano da una ricerca del professor Pacman, direttore dell’Istituto superiore per gli studi della medicina dello sport, settore briscola. È stato calcolato che in una partita di briscola, ad ogni mano si impiegano 8,9 secondi per controllare le proprie carte, 3,7 secondi per elaborare la strategia vincente, 10,2 secondi a calcolare mentalmente i punti e 6,4 secondi a calcolare mentalmente i punti che può avere l’avversario. In tutto, una mano di briscola richiede almeno trenta secondi di intensa attività cerebrale, circa il doppio di quelli richiesti in un’intera partita di tamburello e comunque molti di più di quelli impiegati in media della popolazione italiana quando si reca a votare. Tutti questi dati devono essere triplicati in riferimento all’ultima mano, portando in totale a cinque minuti il tempo impiegato a pensare in una sola partita: al di là dell’importanza per il benessere del cervello, bisogna ricordare che pensare cinque minuti comporta un dispendio di circa 13 calorie, l’equivalente di un quarto di biscotto Oro Saiwa.
Parliamo dei benefici per le articolazioni: l’impugnatura delle carte favorisce l’esercizio dei flessori delle dita, provocando indirettamente un migliore pompaggio del sangue in tutto il corpo, fare i segni al compagno tiene in forma i muscoli facciali e, per quanto riguarda il segno del cavallo, l’articolazione della spalla, l’operazione di pescaggio della carta migliora la postura e la flessibilità dell’adduttore, mescolare migliora la coordinazione dei movimenti degli arti superiori e rappresenta un’efficace prevenzione per l’artrite. Per disputare una partita di briscola si possono fare fino a 3 chilometri, ma è un dato che varia da individuo a individuo e dipende essenzialmente dalla distanza tra la propria abitazione e il bar più vicino. Bere il classico bianchino di accompagnamento alla partita comporta un notevole miglioramento per la funzionalità del gomito ma, trattandosi comunque di sostanza alcolica, non bisogna esagerare: il professor Pacman consiglia di limitarsi a un bianchino, un fernet e un boero ogni ventiquattro-trentasei ore, da assumere rigorosamente a stomaco pieno.
Quindi giocare a briscola, ricordandosi di non esagerare col bere, è una validità attività fisica e intellettuale: ma, dice il professor Pacman, quando si arriva in età avanzata, è meglio non forzare le proprie prestazioni e prendersi piccole pause, seguendo sei partite in piedi dietro un amico (con effetti positivi per la circolazione nelle gambe) ogni dodici partite giocate. L’ultima parte dello studio consiglia di non vestirsi con la giacca di fustagno e il cappello di feltro anche ad agosto, per il pericolo di incappare in qualche malanno, ma sappiamo quanto i giocatori di briscola siano legati alla propria uniforme regolamentare.
A tutti auguriamo una felice estate e tanta, tanta, tanta briscola!
P.S.: Nessun giocatore di briscola è stato maltrattato per la realizzazione di questo studio.
Io c’ho un certo numero di difetti. Piccolissimi, però.
Ecco, un difetto che mi è stato attaccato dal fatto di stare a Volta è che se qualcuno mi rivolge la parola per strada, magari anche un forestiero, mi sento tenuto a dargli retta: mi vuole domandare qualcosa, magari una strada, un’indicazione, un posto dove si mangia bene. Mi han chiesto tante robe, dov’era l’officina Melchioretti, l’agriturismo Gardenali, dov’era la tomba di Alessandro Volta, dove si poteva fare una pausa pranzo, se c’era un fornaio, come si fa a andare al posto che han visto in televisione col ponte e i mulini sul Mincio, qualche volta ho anche parlato in inglese.
Quando sono andato a stare a Bologna per l’università le prime volte ci son cascato: ho dato retta a tutti quelli che mi fermavano per strada convinto che avessero bisogno di me per chiedermi dov’era Porta Sant’Isaia, un posto dove si mangia bene, casa di Guccini, cose così. Invece l’intento di quei vigliacchi che ti fermano per strada per chiederti delle robe in città è quasi sempre convincerti, dopo che ti hanno fatto credere di aver bisogno di te, che sei tu ad aver bisogno di loro. Mi han chiesto se leggo molti libri, se sono contrario all’oppressione dei popoli del terzo mondo stretti nella morsa del capitalismo, se sono contrario alle scritte sui muri, se avevo il telefonino e se ero favorevole al reinserimento nel mondo del lavoro degli ex-tossicodipendenti e degli ex-carcerati. Io non sospettavo e davo retta a tutti. Dopo i primi due mesi di università ero iscritto a Mondolibri, al circolo Marxista-Leninista, alla Casa del Fascio, a sette compagnie telefoniche diverse, avevo finanziato svariati progetti benefici e umanitari, rallegrato diverse associazioni di ex-sbandati, barboni, malati e garantito una vecchiaia tranquilla a decine di truffatori e di africani che chiedevano spiccioli per il caffè.
Urgeva una svolta o sarei rimasto senza un euro: da quel momento lì son diventato tignoso.
Ai comunisti dicevo che ero fascista, ai fascisti che ero comunista, ai ciellini dicevo che ero intelligente, agli ex-carcerati che il lavoro serviva a me e che era meglio che non uccidessero più nessuno, a Mondolibri che ero analfabeta e a quelli dei telefoni che avevo un telegrafo e mi trovavo benissimo così. Allo stesso tizio che mi aveva fermato tre volte per chiedermi se volevo iscrivermi a un corso di memoria, gli ho detto che gli avevo risposto di no già due volte e che quindi il suo corso non funzionava mica tanto bene.
Però, nonostante la svolta, non sono mai riuscito a impormi di resistere alle lusinghe degli africani che vendono braccialettini portafortuna e similia. Perché loro iniziano con i complimenti, e tra i miei difetti c’è che i complimenti mi piacciono moltissimo. Poi ti regalano una cosa che in teoria ti dovrebbero vendere, e un altro difetto che ho è che sono molto tirchio. Sempre, dopo il regalo, ti chiedono qualcosa in cambio, e lì sei fregato. O meglio, se ti chiedono dei soldi restituisci il falso regalo: se vuoi dei soldi non è un regalo, signor ragionier Africa, gli dico sempre. Ma se non sono dei soldi la mia tirchieria prevale e cedo a qualsiasi ricatto, do la mia parola incondizionatamente. E se c’è un altro difetto che ho è che mantengo sempre la parola data.
Una volta un nero ha avvicinato me e la Giulia, mi ha guardato, poi ha guardato la Giulia, poi ha riguardato me e mi ha detto: «Bei denti». In effetti la Giulia li ha tutti al loro posto. Si vede che per loro la scelta della donna si fa un po’ come per i cavalli: se son buoni i denti è buono anche il resto. E poi ha precisato: «Bel cromosoma». Giuro, ha detto così. Abbiamo riso tutti e tre. Poi mi ha fatto vedere i braccialetti e io gli ho detto che non li volevo, ma lui ha tirato fuori l’arma finale: «No, no, io regala te». Un affare senza precedenti, prendo due braccialetti, uno per me e uno per la Giulia e lo ringrazio molto sbavando per la vittoria della mia avidità. Ma lui incalza: «Però tu chiama tuo figlio come me». «Va bene, come ti chiami?». Babacar. Si chiamava Babacar, e si era abilmente assicurato che il suo nome si perpetuasse attraverso un ottimo cromosoma.
E più di recente un altro nero mi ha chiesto se avevo da accendere, gli ho detto di no, mi ha chiesto se ero salutista, gli ho detto di no. Ormai ci eravamo incrociati, lui era più avanti di me, si è voltato e mi ha gridato: «Tu hai faccia da buono, devi andare in Africa». A far cosa? «Africa ha bisogno di gente buona come te! In che posto vuoi andare di Africa?». Io volevo farla corta e ho detto che volevo andare in Zambia. Non so neanche dov’è, so che ha vinto la Coppa d’Africa e basta. «Io ti regalo questa statuina di tartaruga che porta fortuna da mettere sopra il letto se tu prometti di andare in Zambia». Io ho accettato, a quel punto lì: scusa, vuoi mettere una tartaruga di legno gratis?
racconto pubblicato su gammm.org e letto in occasione di Ricercabo 2011, da cui è tratto il video qui sotto
Nel paese, proprio su in cima, c’è la chiesa, e dentro la chiesa c’è la Beata Paola, che è la protettrice del paese. Non è santa, solo beata, fa quel che può per proteggere, si dà da fare abbastanza, dicono. La Beata Paola è proprio lì. Anche se morta da cinque secoli e passa, forse sei, non so, il suo corpo è ancora immacolato, in bella vista dentro una teca. Che sia immacolato è quello che dicono ai bambini a dottrina, ma se i bambini guardano, almeno quelli più acuti, si accorgono che c’è qualcosa che tocca. O un pochino è deteriorata, o se era così anche da viva, con poca pelle tutta secca abbarbicata alle ossa, senza occhi, con tutti i denti belli in vista, allora c’è da credere che s’era fatta suora per quello. Perché, insegnano ai bambini, lei era nata in paese o lì vicino, si era fatta suora, il diavolo aveva cercato di farla cascare dalle scale, lei faceva i miracoli, tipo non cascare dalle scale neanche se la spingeva il diavolo e preservare il raccolto. Più o meno questo è quanto sulla Beata Paola. Lo sanno tutti perché te lo insegnano da bambini.
Nel paese, un po’ più in giù, c’è anche un bar che non fa miracoli di nessun tipo, fa il bar e basta. Il padrone era il Franco, non era beato neanche un filo, anzi, lui diceva addirittura che secondo lui la Beata Paola non era mica immacolata, e avanzava gli stessi dubbi anche su una buona parte delle rappresentanti di questa e altre religioni. Con lui le suore a dottrina si eran anche date un bel daffare, ma non l’avevan persuaso per niente.
Ecco, i rapporti tra il Franco e la Beata Paola erano restati all’apparenza gli stessi finché non è morto il Franco, mica tanti anni fa. Una su, uno un po’ più giù, uno dietro un bancone, una in una teca, ognuno faceva la sua vita. In apparenza, però.
Perché quando mica tanti anni fa è morto il Franco i suoi parenti avevano deciso di vendere il bar, che avevan trovato uno che voleva farci dentro un negozio di attrezzatura da subacqueo che poi ha rivenduto a uno che c’ha rifatto un bar, e si eran messi a smontare tutto, a decidere cosa vendere ai rigattieri, cosa tener da conto, cosa buttar via. Quando han tirato via la cassa, che c’erano ancora dentro mille lire di quelle grandi piegate in sei parti, dio solo sa da quanto tempo, sotto han trovato una roba un po’ strana: c’era un quadernino nero con scritto sopra Debiti, uno di quei quaderni che si usavano per farsi a mano le rubriche dei numeri di telefono, quelle con le lettere dell’alfabeto dalla parte. Insomma, fattostà che il quadernino era tutto vuoto, a parte che sotto la lettera B c’era segnato in bella calligrafia Beata Paola deve 100 lire.
Era nato così uno dei misteri più grossi del paese. Nessuno ricordava niente che potesse spiegare il fatto. Era ben strano, questo fatto, si dicevano: la Beata Paola è morta da un bel po’, come faceva a dover dei soldi al Franco? C’era uno che diceva che lui l’aveva evocata in una seduta spiritica, ma non spiegava il fatto delle 100 lire, ed era una tesi debolissima anche perché tutti sapevano che il Franco non ci credeva, a quelle robe lì. Il professore, che era quello più razionale di tutti, supponeva che lui avesse segnato quel nome intendendolo piuttosto come soprannome di qualcun altro, o meglio, di qualcun’altra. A quel punto, più del nome stesso, restava un mistero l’esistenza del quadernino, perché il Franco non voleva che la gente fosse in debito con lui e quindi o si faceva pagare con prestazioni d’opera, tipo dal Sogno si faceva aggiustare le scarpe, dall’Arrigo si faceva fare una credenza, e via così, o si affidava al baratto, o, se proprio, tirava fuori la doppietta da caccia da sotto il bancone e sparava allo scroccone. La doppietta era carica coi pallini da uccellino e lui mirava di solito verso i piedi, a una certa distanza, insomma, non voleva mica far male sul serio a nessuno, gli piantava solo due o tre pallini innocui che bastava una pinzetta e lo iodio ed eri già a posto. Lui questo sistema lo vedeva come equivalente al pagamento, diceva non andrò mica in rovina per le 300 lire che mi deve questo qua, gli sparo, mi diverto un po’ e siam pari. Era un sistema che conoscevano tutti, c’erano un paio di scrocconi che avevan deciso che valeva la pena farsi sparare e avevan dentro così tanti pallini che alle volte non potevano neanche entrare in banca che il metal detector andava giù di testa, iniziava a suonare che si sentiva a stare al bar del Franco, e il Franco rideva e diceva, ah, 300 lire che son state un investimento. Franco era una buona persona, gli piaceva divertirsi. E la storia del professore non stava in piedi: la Beata Paola doveva essere la Beata Paola, non un’altra persona, altrimenti al limite gli avrebbe sparato. Anche se era una donna. E poi era improbabile che fosse una donna perché in quel bar lì le donne ci andavano poco volentieri, a parte la Graziana, che era una che si faceva sparare, ma è un altro discorso.
Di fronte al vuoto della logica, l’uomo subito ha un po’ paura, poi capisce che è lì che tocca a lui.
Era nata così una delle più grandi leggende del paese.
Era estate, un sacco di anni fa. Una di quelle notti che c’è un caldo da far paura, un’afa che toglie il fiato, neanche un filo di vento, la gente sta tutta a letto a girarsi ma suda e non riesce a prender sonno, neanche con le finestre aperte. Se uno grida da una parte del paese, dall’altra si sente. Ogni tanto, infatti, due si chiamano, a un chilometro o due: te dormi?, no e te?.
Il Franco aveva il bar aperto, perché tanto dormire non dormiva mai, col caldo. Aspettava che magari venisse qualcuno a prender qualcosa da bere, saran state le undici, undici e venti.
Dentro la teca, il corpo della Beata Paola pativa un umido che le dava un fastidio che dio solo lo sa, le sembrava di rigonfiarsi tutta, che le si sbriciolassero le ossa, puff. Allora apre la teca, è un po’ stranfognata, si mette in ordine con le mani ossute, esce dalla chiesa col suo vestito da suora che ha sempre addosso, e va al bar.
Il Franco vede la Beata Paola che arriva verso il bar, la riconosce, non è che ci siano tante possibilità, da bambino l’ha vista tante volte. Non è immacolato, il suo corpo, pensa. Il secondo pensiero che gli viene è che deve far proprio un gran caldo se s’è svegliata anche lei. Il terzo è che lui a quelle robe lì non ci crede.
La Beata Paola va dentro, Buonasera ragazzo, dice. Il Franco dice, Buonasera, cosa ci servo? La Beata Paola dice Una spuma bianca da cento, grazie. Lui la versa, intanto si chiede come fa a sapere che esiste la spuma, ci sarà stata anche ai suoi tempi, lei la beve e fa Bon, adesso torno su, arrivederci. Lui la guarda un po’ intanto che fa i primi due passi lenti, non ha mica pagato. Tira fuori la doppietta coi pallini da uccellino e fa per sparare, poi ci pensa. Ma sarò mica scemo, si dice, a sparare alla Beata Paola, io non ci credo mica a quelle robe lì. Mette via la doppietta e rimane lì a grattarsi la testa. Ormai è andata così, lui non ci crede allora deve essere un’allucinazione, cosa spari, a un’allucinazione. O se non è un’allucinazione, allora era la Beata Paola, e cosa spari, alla Beata Paola. Poi guarda il bancone. C’è un bicchiere vuoto, lo lava e lo mette via.
Chi ci crede, pensa, se la racconto, sta roba, che non ci credo nemmeno io?
Il giorno dopo va in cartoleria, prende un quaderno di quelli per la rubrica del telefono, ci scrive Debiti e segna in bella calligrafia Beata Paola deve 100 lire. Lo mette sotto la cassa, e lo lascia lì, non lo usa più.
Di per sé non era mica una gran leggenda. Sì, un bell’aneddoto, quello sì. Comunque era la versione ufficiale dei fatti. C’eran delle correnti di pensiero, in paese. Ce n’eran di quelli che ritenevano il fatto che la Beata avesse chiesto una spuma fosse la prova dell’onniscienza di chi è salito al cielo, altri che ritenevano che fosse onniscienza a metà, perché la spuma non è che disseti poi molto. C’eran gli scettici, che vanno dietro anche adesso a dire che basterebbe aprire la teca e vedere se ci sono tracce di spuma sulla Beata, visto che è difficile che l’abbia assimilata e espulsa, messi come sono messi i suoi organi. Ovviamente la curia non ha mai concesso le analisi. Ce n’eran di quelli che non ci credevano, e dicevano che il quadernino col debito era uno scherzo del Franco, l’aveva fatto apposta per farlo trovare e lasciare la gente a chiedersi cosa significava.
Ognimodo, gli eredi del Franco han deciso un bel giorno di calcolare gli interessi sulle cento lire e di citare in giudizio l’ordine di religiose a cui apparteneva la Beata Paola.
In tribunale, di fronte alle prove, l’avvocato delle suore ha proposto il patteggiamento, alla fine suo nipote del Franco ha sparato coi pallini da uccellino alla madre superiora.
Egregio Presidente Monti,
io non sono un grande esperto di economia ma ugualmente voglio mettermi a disposizione per risollevare il Paese dalla tragica situazione in cui versa. Le indirizzo pertanto tramite le pagine di questo giornale una lettera aperta che spero terrà in considerazione.
Vorrei umilmente avanzare una proposta semplice per uscire dalla crisi: la prima mossa da fare sarebbe porre fine alla sanguinosa Guerra dei Cachi che rovina l’autunno di ogni famiglia italiana, mettendo in insanabile conflitto anziani che obbligano figli e nipoti a raccogliere i cachi e figli e nipoti stessi, obbligati a portare con sé la totalità del raccolto, che ovviamente non piace a nessuno, e prodursi in vani tentativi di sbolognare i cachi a lontani conoscenti in segno d’affetto, conoscenti che a loro volta cercheranno di rifiutarli sdegnosamente causando il default del sistema Caco, che marcisce nelle cantine delle famiglie italiane insieme ai BOT.
Tutto questo accade perché il caco è un frutto che nessuno sano di mente riesce ad apprezzare. Il fatto che quasi tutte le nostre famiglie siano cadute nel bieco tranello del caco quando esso sembrava rappresentare un sicuro investimento per l’avvenire e ne abbiano piantato uno in ogni giardino, ignorando le nefaste conseguenze future, ha creato un divario tra domanda di cachi e offerta di cachi che è andato al di là di ogni previsione dei mercati causandone la svalutazione totale. Con l’andare del tempo lo spread tra il rendimento di una pianta di ciliegie e un caco ha messo in ginocchio le nostre famiglie, superando il milioneduecentosedicimila punti e culminando nel tristemente famoso lunedì nero del 1994, quando un uomo esasperato rovesciò tre cassette di cachi sul Raccordo Anulare, causando un tamponamento a catena e segnando indirettamente l’inizio dell’era Berlusconi.
La mia proposta, non del tutto dissimile da certe operazioni degli speculatori finanziari, ma assai più democratica, è quella di quotare in borsa i cachi come titoli obbligazionari, in modo che assumano un valore, per quanto puramente immaginario, e rilancino il sistema Paese fungendo da volano per la ripresa economica.
Superando così l’antico concetto di caco come frutto senza valore intrinseco e operando questo piazzamento che lo faccia valere come puro prodotto finanziario, i nostri anziani potrebbero godere di un plusvalore sulla loro pianta di cachi, i nipoti verrebbero pagati per raccoglierli e al posto di assistere come ogni anno all’orrendo balletto dello scarica-caco i nonni potrebbero depositare carrettate di cachi a Piazza Affari. Solo così l’Italia potrà risorgere e tornare ricca e competitiva, equa e libera dal giogo delle banche e degli speculatori.
E, soprattutto, nessuno dovrà più mangiare cachi.
racconto segnalato al Festival degli Scrittori della Bassa di Pegognaga e pubblicato nell’antologia I misteri della bassa, E.Lui editore, Reggiolo, 2011.
Si dice che durante gli esorcismi il fatto che il diavolo riveli il proprio nome sia un primo segno di cedimento e l’inizio della liberazione per il posseduto.
La motosega che adoperava il Nedo non ha mai parlato. Io lo ritenevo un chiaro sintomo del fatto che il demone che l’abitava non avesse la minima intenzione di andarsene.
Lucifero arrivò in riva alla bonifica di Po un mattino del 1975 e si insediò in una nuovissima BCS blu riposta sotto il fienile di una corte. Agli arcangeli non dovette sembrare una mossa particolarmente brillante, ma il loro più scafato ex-collega la sapeva lunghissima e li sbalordì.
Da allora ogni mattina fu uguale: il Nedo si avvicinava alla motosega, afferrava la corda dell’avviamento e la tirava una prima volta; il motore non dava segni di vita. Si accendeva soltanto al ventiquattresimo tentativo, dopo altrettante bestemmie sempre più creative. Gli arcangeli dalla nuvola sentirono il loro dio associato ad animali da bassa corte, attrezzi agricoli, flora appenninica, donne lascive. Lucifero, da dentro la BCS, si compiaceva.
Il Nedo cercò per anni di mettere a punto quel motore: sapeva che da esso dipendeva anche la sua redenzione. Dovette arrendersi, ignaro, al mistero.