Migrazioni

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dal Voltapagina di Marzo 2012, pag. 5

Io c’ho un certo numero di difetti. Piccolissimi, però.

Ecco, un difetto che mi è stato attaccato dal fatto di stare a Volta è che se qualcuno mi rivolge la parola per strada, magari anche un forestiero, mi sento tenuto a dargli retta: mi vuole domandare qualcosa, magari una strada, un’indicazione, un posto dove si mangia bene. Mi han chiesto tante robe, dov’era l’officina Melchioretti, l’agriturismo Gardenali, dov’era la tomba di Alessandro Volta, dove si poteva fare una pausa pranzo, se c’era un fornaio, come si fa a andare al posto che han visto in televisione col ponte e i mulini sul Mincio, qualche volta ho anche parlato in inglese.

Quando sono andato a stare a Bologna per l’università le prime volte ci son cascato: ho dato retta a tutti quelli che mi fermavano per strada convinto che avessero bisogno di me per chiedermi dov’era Porta Sant’Isaia, un posto dove si mangia bene, casa di Guccini, cose così. Invece l’intento di quei vigliacchi che ti fermano per strada per chiederti delle robe in città è quasi sempre convincerti, dopo che ti hanno fatto credere di aver bisogno di te, che sei tu ad aver bisogno di loro. Mi han chiesto se leggo molti libri, se sono contrario all’oppressione dei popoli del terzo mondo stretti nella morsa del capitalismo, se sono contrario alle scritte sui muri, se avevo il telefonino e se ero favorevole al reinserimento nel mondo del lavoro degli ex-tossicodipendenti e degli ex-carcerati. Io non sospettavo e davo retta a tutti. Dopo i primi due mesi di università ero iscritto a Mondolibri, al circolo Marxista-Leninista, alla Casa del Fascio, a sette compagnie telefoniche diverse, avevo finanziato svariati progetti benefici e umanitari, rallegrato diverse associazioni di ex-sbandati, barboni, malati e garantito una vecchiaia tranquilla a decine di truffatori e di africani che chiedevano spiccioli per il caffè.

Urgeva una svolta o sarei rimasto senza un euro: da quel momento lì son diventato tignoso.

Ai comunisti dicevo che ero fascista, ai fascisti che ero comunista, ai ciellini dicevo che ero intelligente, agli ex-carcerati che il lavoro serviva a me e che era meglio che non uccidessero più nessuno, a Mondolibri che ero analfabeta e a quelli dei telefoni che avevo un telegrafo e mi trovavo benissimo così. Allo stesso tizio che mi aveva fermato tre volte per chiedermi se volevo iscrivermi a un corso di memoria, gli ho detto che gli avevo risposto di no già due volte e che quindi il suo corso non funzionava mica tanto bene.

Però, nonostante la svolta, non sono mai riuscito a impormi di resistere alle lusinghe degli africani che vendono braccialettini portafortuna e similia. Perché loro iniziano con i complimenti, e tra i miei difetti c’è che i complimenti mi piacciono moltissimo. Poi ti regalano una cosa che in teoria ti dovrebbero vendere, e un altro difetto che ho è che sono molto tirchio. Sempre, dopo il regalo, ti chiedono qualcosa in cambio, e lì sei fregato. O meglio, se ti chiedono dei soldi restituisci il falso regalo: se vuoi dei soldi non è un regalo, signor ragionier Africa, gli dico sempre. Ma se non sono dei soldi la mia tirchieria prevale e cedo a qualsiasi ricatto, do la mia parola incondizionatamente. E se c’è un altro difetto che ho è che mantengo sempre la parola data.

Una volta un nero ha avvicinato me e la Giulia, mi ha guardato, poi ha guardato la Giulia, poi ha riguardato me e mi ha detto: «Bei denti». In effetti la Giulia li ha tutti al loro posto. Si vede che per loro la scelta della donna si fa un po’ come per i cavalli: se son buoni i denti è buono anche il resto. E poi ha precisato: «Bel cromosoma». Giuro, ha detto così. Abbiamo riso tutti e tre. Poi mi ha fatto vedere i braccialetti e io gli ho detto che non li volevo, ma lui ha tirato fuori l’arma finale: «No, no, io regala te». Un affare senza precedenti, prendo due braccialetti, uno per me e uno per la Giulia e lo ringrazio molto sbavando per la vittoria della mia avidità. Ma lui incalza: «Però tu chiama tuo figlio come me». «Va bene, come ti chiami?». Babacar. Si chiamava Babacar, e si era abilmente assicurato che il suo nome si perpetuasse attraverso un ottimo cromosoma.

E più di recente un altro nero mi ha chiesto se avevo da accendere, gli ho detto di no, mi ha chiesto se ero salutista, gli ho detto di no. Ormai ci eravamo incrociati, lui era più avanti di me, si è voltato e mi ha gridato: «Tu hai faccia da buono, devi andare in Africa». A far cosa? «Africa ha bisogno di gente buona come te! In che posto vuoi andare di Africa?». Io volevo farla corta e ho detto che volevo andare in Zambia. Non so neanche dov’è, so che ha vinto la Coppa d’Africa e basta. «Io ti regalo questa statuina di tartaruga che porta fortuna da mettere sopra il letto se tu prometti di andare in Zambia». Io ho accettato, a quel punto lì: scusa, vuoi mettere una tartaruga di legno gratis?

Così dovrò andare a stare in Zambia.

Almeno Babacar si troverà bene.

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