BACKGROUND
pubblicato nell’antologia Mimetica Realtà – Coopforwords2011, Bohumil, Bologna 2011
e
sulla rivista on-line Temperamente
Le robe normali dell’andar su e giù a uno gli succedono sempre.
Dico su e giù perché io sto dentro un paese che è un pezzo in pianura e un pezzo in collina. Per andar avanti e indietro, bisogna andar su e giù. Per tornare indietro, il bello è che il contrario di su e giù non è mica giù e su. Uno ci ride sopra, son tutti bei discorsi del contrario di una roba che è la stessa roba a cul in su. La strada la fai dall’altra parte, ma se devi tornare nello stesso posto da dove sei venuto, è sempre un su e giù, mica giù e su.
Tutto questo su e giù, dicevo, è quasi tutti i giorni uguale. A volte succedono delle robe un po’ diverse, ma comunque abbastanza normali, nel senso che succedono a tutti. Quel giorno lì che andavo su e giù col Ciao di mia nonna c’è stato un momento che ero circa nel punto che il su diventa giù che è successa una di queste robe.
Parte tutto dal fatto che dalla porta di casa sua spuntava fuori il Sogno.
Sogno faceva lo scarpolino, il nome vero era Angelo, mi pare, e aveva una gamba sola. Sogno era un nome d’arte, perché nell’aggiustare le scarpe faceva di quei lavori di un preciso che le parole umane non sono abbastanza.
Il Cinese era anche lui sulla scena di quello che mi stava succedendo: nella sua bottega di barbiere d’altri tempi stava sbarbando sei o sette vecchiotti mentre discuteva del tempo con altri dieci o dodici che andavano lì apposta a discutere del tempo, anche se non dovevano farsi rasare. Quel giorno lì tra l’altro faceva caldo, sudavano tutti come dei salami quando li tiri fuori dal sottovuoto dopo un po’ che son lì. Il Cinese non era cinese per davvero, aveva anche un nome vero e un cognome da cristiano, ma non gli sono mai serviti: era giallino, bassetto e con gli occhietti un po’ allungati, e questo era già fin troppo per non dargli un soprannome così.
Proprio nel punto in cui il su diventa giù, sia all’andata che al ritorno, stava scollinando per trascinarsi al bar il Bruno de la Stasiù, che si portava dietro la bici a mano, perché la salita per lui era troppo dura. Si portava dietro anche il nome del posto dove abitava, la Stazione, appunto. Non credo che se lui un giorno, metti caso, andava a stare da un’altra parte, gli cambiavano nome.
Anche perché, se uno ci pensa è strano, le robe ci mettono un sacco di tempo a cambiare nome, anche se uno campa cent’anni non fa in tempo a vederlo. I nomi si attaccano ai posti, si attaccano alle persone, come la puzza di fritto che c’è al ristorante giù in piazza, che hai voglia a tenere i vestiti all’aperto e tutto, è una puzza che non se ne va mai. Per esempio il mio paese ha un sistema così, che i vecchi dicono: vado al macello. Mica vanno a farsi tagliare in quarti, è che dove c’era una volta il macello c’è il circolo degli anziani. Però il nome si è attaccato al posto, non se ne va più, puoi anche buttar giù l’edificio vecchio ma quello che fai nuovo si chiama ancora macello. Io vado a giocare a calcetto al cimitero, mica al campo da calcetto, perché il campo da calcetto è esattamente dove c’era il cimitero vecchio. I morti lì sotto non se ne sono ancora andati e non c’è verso di cacciarli via.
Dico così perché la Stazione del nome del Bruno, al di là di tutto, non c’era più da una quarantina d’anni, ma il nome s’era attaccato al posto e il nome del posto s’era attaccato alla persona. Tutto è rimasto indietro coi nomi, non si aggiornano mai, perché la gente ha nella testa un mondo fatto di posti e di persone che devono per forza avere un nome, e il nome è sempre quello con cui li conosci. Il battesimo è il momento esatto della creazione, e da lì in poi il nome si imbromba di storie e di rughe, e tutte le volte che lo nomini, dici tutto quello che c’è bisogno.
C’era anche dell’altra gente in quell’istante lì. Andava su e giù anche il Mago Gino, anche lui andava col motorino. Mago Gino faceva magie straordinarie, tipo aprire una cassapanca, infilarci dentro la testa e sostenere di parlare con Londra. Una volta in contatto con Londra, chiedeva che tempo faceva. Pioveva quasi sempre. Nel momento in cui è successo il fatto che mi interessa dire, lui era appena passato. C’era anche la Mariangela col suo bazar incasinatissimo con tutte le robe che vende una sopra l’altra che io non so come fa a trovar fuori sempre tutto quello che le domandi, un pigiama della Ingram, un goniometro, un tostapane. C’era il bar Impero, che anche lui non si chiama Impero: ha un nome brutto, Caffè Commercio, e ce l’ha da dopo la guerra, c’è scritto anche sull’insegna, ma dentro nella testa delle persone, anche di quelle nate dopo, che sono la maggior parte, è ancora Impero.
Insomma, era tutto fatto di nomi imparati senza stringere la mano. Tutto quanto lo scenario; non importano le case, i muri, i gradini. Le case, i muri, i gradini, magari, fanno lo sfondo. Non c’entrano. I nomi che ho detto, invece, loro non lo sapevano, ma c’entrano, anzi, è come se fossero protagonisti. Il nome poi non è che conta poco, cioè, non si poteva mica raccontare senza fare i nomi: una volta che fai il nome chiami tutta la roba che c’è attaccata alla persona. Hai già detto tutto. Non hai più bisogno di stringergli la mano se lo vedi.
Comunque, quello che dovevo spiegare è che circa in quel punto lì che il su diventa giù, mi sono innamorato.