Category Archives: Scritti

Background

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pubblicato nell’antologia Mimetica Realtà – Coopforwords2011, Bohumil, Bologna 2011

sulla rivista on-line Temperamente

Le robe normali dell’andar su e giù a uno gli succedono sempre.
Dico su e giù perché io sto dentro un paese che è un pezzo in pianura e un pezzo in collina. Per andar avanti e indietro, bisogna andar su e giù. Per tornare indietro, il bello è che il contrario di su e giù non è mica giù e su. Uno ci ride sopra, son tutti bei discorsi del contrario di una roba che è la stessa roba a cul in su. La strada la fai dall’altra parte, ma se devi tornare nello stesso posto da dove sei venuto, è sempre un su e giù, mica giù e su.
Tutto questo su e giù, dicevo, è quasi tutti i giorni uguale. A volte succedono delle robe un po’ diverse, ma comunque abbastanza normali, nel senso che succedono a tutti. Quel giorno lì che andavo su e giù col Ciao di mia nonna c’è stato un momento che ero circa nel punto che il su diventa giù che è successa una di queste robe.
Parte tutto dal fatto che dalla porta di casa sua spuntava fuori il Sogno.
Sogno faceva lo scarpolino, il nome vero era Angelo, mi pare, e aveva una gamba sola. Sogno era un nome d’arte, perché nell’aggiustare le scarpe faceva di quei lavori di un preciso che le parole umane non sono abbastanza.
Il Cinese era anche lui sulla scena di quello che mi stava succedendo: nella sua bottega di barbiere d’altri tempi stava sbarbando sei o sette vecchiotti mentre discuteva del tempo con altri dieci o dodici che andavano lì apposta a discutere del tempo, anche se non dovevano farsi rasare. Quel giorno lì tra l’altro faceva caldo, sudavano tutti come dei salami quando li tiri fuori dal sottovuoto dopo un po’ che son lì. Il Cinese non era cinese per davvero, aveva anche un nome vero e un cognome da cristiano, ma non gli sono mai serviti: era giallino, bassetto e con gli occhietti un po’ allungati, e questo era già fin troppo per non dargli un soprannome così.
Proprio nel punto in cui il su diventa giù, sia all’andata che al ritorno, stava scollinando per trascinarsi al bar il Bruno de la Stasiù, che si portava dietro la bici a mano, perché la salita per lui era troppo dura. Si portava dietro anche il nome del posto dove abitava, la Stazione, appunto. Non credo che se lui un giorno, metti caso, andava a stare da un’altra parte, gli cambiavano nome.
Anche perché, se uno ci pensa è strano, le robe ci mettono un sacco di tempo a cambiare nome, anche se uno campa cent’anni non fa in tempo a vederlo. I nomi si attaccano ai posti, si attaccano alle persone, come la puzza di fritto che c’è al ristorante giù in piazza, che hai voglia a tenere i vestiti all’aperto e tutto, è una puzza che non se ne va mai. Per esempio il mio paese ha un sistema così, che i vecchi dicono: vado al macello. Mica vanno a farsi tagliare in quarti, è che dove c’era una volta il macello c’è il circolo degli anziani. Però il nome si è attaccato al posto, non se ne va più, puoi anche buttar giù l’edificio vecchio ma quello che fai nuovo si chiama ancora macello. Io vado a giocare a calcetto al cimitero, mica al campo da calcetto, perché il campo da calcetto è esattamente dove c’era il cimitero vecchio. I morti lì sotto non se ne sono ancora andati e non c’è verso di cacciarli via.
Dico così perché la Stazione del nome del Bruno, al di là di tutto, non c’era più da una quarantina d’anni, ma il nome s’era attaccato al posto e il nome del posto s’era attaccato alla persona. Tutto è rimasto indietro coi nomi, non si aggiornano mai, perché la gente ha nella testa un mondo fatto di posti e di persone che devono per forza avere un nome, e il nome è sempre quello con cui li conosci. Il battesimo è il momento esatto della creazione, e da lì in poi il nome si imbromba di storie e di rughe, e tutte le volte che lo nomini, dici tutto quello che c’è bisogno.
C’era anche dell’altra gente in quell’istante lì. Andava su e giù anche il Mago Gino, anche lui andava col motorino. Mago Gino faceva magie straordinarie, tipo aprire una cassapanca, infilarci dentro la testa e sostenere di parlare con Londra. Una volta in contatto con Londra, chiedeva che tempo faceva. Pioveva quasi sempre. Nel momento in cui è successo il fatto che mi interessa dire, lui era appena passato. C’era anche la Mariangela col suo bazar incasinatissimo con tutte le robe che vende una sopra l’altra che io non so come fa a trovar fuori sempre tutto quello che le domandi, un pigiama della Ingram, un goniometro, un tostapane. C’era il bar Impero, che anche lui non si chiama Impero: ha un nome brutto, Caffè Commercio, e ce l’ha da dopo la guerra, c’è scritto anche sull’insegna, ma dentro nella testa delle persone, anche di quelle nate dopo, che sono la maggior parte, è ancora Impero.
Insomma, era tutto fatto di nomi imparati senza stringere la mano. Tutto quanto lo scenario; non importano le case, i muri, i gradini. Le case, i muri, i gradini, magari, fanno lo sfondo. Non c’entrano. I nomi che ho detto, invece, loro non lo sapevano, ma c’entrano, anzi, è come se fossero protagonisti. Il nome poi non è che conta poco, cioè, non si poteva mica raccontare senza fare i nomi: una volta che fai il nome chiami tutta la roba che c’è attaccata alla persona. Hai già detto tutto. Non hai più bisogno di stringergli la mano se lo vedi.
Comunque, quello che dovevo spiegare è che circa in quel punto lì che il su diventa giù, mi sono innamorato.

Momenti di Gloria

Momenti di Gloria

Momenti di gloria

dal Voltapagina di Luglio 2011

Alle medie c’era educazione tecnica. Era una materia in cui si imparava un po’ di tutto, senza alcuna logica apparente. In tre anni ho imparato la proiezione ortogonale, a fare una casetta ripiegando del cartoncino, a intrecciare fili in qualunque maniera nonché il diabolico funzionamento di una camera oscura. Il mio professore mi sembrava vecchissimo. A dire il vero, a undici anni mi sembrava vecchissimo chiunque ne avesse più di ventidue. Ma il professore di tecnica mi sembrava più o meno coetaneo di mia bisnonna, che all’epoca andava per i novantacinque. Non so quanti anni avesse di preciso, ma di lì a poco andò in pensione e quindi qualche lustro l’aveva vissuto. Contribuiva moltissimo il suo nome, Eligio, che gli garantiva una quarantina d’anni in più.

Era buonissimo e affettuoso, passava gran parte della lezione a fare esercizi di stretching intrecciando le mani dietro la schiena mentre illustrava alla classe le mirabolanti virtù del seghetto alternativo. A me era molto simpatico, tolleravo persino la sua intransigenza sulle mie sbavature nel disegno tecnico e sulle mie dozzinali trame di tessuto. D’altronde ho sempre avuto la manualità di un babbuino e non era certo lui a farmene rendere conto.

Aveva anche un’intransigenza, verso cui provavo grande simpatia, che riguardava il giradischi orgogliosamente collocato in laboratorio per fornire un’adeguata colonna sonora alle nostre esercitazioni. La regola sulla playlist era di una semplicità al limite del banale: “Va bene tutto, purché non ci siano i tamburi”. Tamburi, nel suo vocabolario d’antan, voleva dire batteria. I timpani e le grancasse da orchestra classica erano tollerate, ma la batteria rock era l’anticristo: il professore non la poteva minimamente sopportare, in quanto simbolo di quel fracasso infernale che contraddistingue la musicaccia prodotta da Claudio Villa in poi. Vista l’età che gli davo, mi sembrava un’intolleranza scontata e, a momenti, giusta. Sussisteva però un problema di fondo: si era già da un pezzo nell’era dei CD e, qualora a qualche compagno fossero rimasti in casa dei dischi in vinile, era improbabile che in essi non ci fosse la batteria. La sua proposta di portare a scuola qualche bel disco cadde inesorabilmente nel vuoto.

Le esercitazioni di laboratorio, tutte, ebbero per tappeto musicale l’unico vinile rimasto in aula, la colonna sonora di “Momenti di gloria”. Con quel sottofondo così emotivamente intenso ogni proiezione ortogonale fu carica di slancio epico, degna di una medaglia d’oro olimpica, sospesa nell’atmosfera surreale del taglio del traguardo dei quattrocento metri piani.

La campanella ci suonava l’inno nazionale.

TRE MODESTE PROPOSTE

TRE MODESTE PROPOSTE

dal Voltapagina del Dicembre 2010, pag. 5

BUONE FESTE A TUTTI

Egregio direttore del Voltapagina

sono un voltese d.o.c. disgustato da tutte le amministrazioni comunali che abbiamo avuto dal 56 dopo Cristo ad oggi. Ah, quando c’era C. Quintilius Martellius le cose rigavano dritte!

Io vorrei far presente che i nostri assessori non fanno nulla per offrire ai cittadini un Santo Natale diverso, autentico, voltese, che sia una orgogliosa dimostrazione delle nostre care radici e della nostra superiore cultura.

Ad esempio, molti paesi del Trentino, dove le robe funzionano, hanno fatto un sacco di soldi con le piste da sci. Ritengo che sia da stupidi non sfruttare le meraviglie naturali che il Signore ha voluto donarci per allestire opportuni spazi ricreativi dove praticare lo sci, perlomeno durante le festività natalizie: ad esempio, il ripido pendio che unisce via Aldo Moro a via Giuseppe Verdi andrebbe innevato artificialmente e con un minimo investimento si potrebbe dotarlo di opportuni impianti di risalita, anche a mezzo scuolabus che risalga la Circonvallazione. Così, per passare il Natale con tutta la famiglia unita come vuole la tradizione, i nostri atleti potranno godersi una pista in casa e non dovranno più mestamente separarsi da nonni e zii per andare in Val di Fassa.

Non vedo inoltre perché il comune non dia ulteriore appoggio al positivo fenomeno dei cacciatori sulla pista ciclabile. Siccome la ciclabile attira moltissimi stranieri, provenienti da terre lontane e nemiche come Pozzolo, Valeggio e Cerlongo, ritengo d’uopo che il comune attrezzi, per sottolineare il nostro fervente orgoglio cittadino, un’area di tiro al bersaglio con carabine in comodato d’uso gratuito a tutti i voltesi d.o.c. e i.g.p. con le quali poter tirare a tutti coloro che a colpo d’occhio appaiano forestieri, ivi compreso chi risiede a Volta da meno di cinque anni e chi non abbia almeno un parente di quarto grado di cognome Martelli, Ferri o Ghidini.

L’impegno dell’amministrazione è scarso anche quando si tratta di radici cristiane. Facciamoci del male! In questo mondo omologato e globalizzato ci stiamo dimenticando quali sono le luci da seguire nei momenti bui! I nostri bambini, infatti, continuano a ricevere doni da Santa Lucia, e su questo non ho molto da ridire, ma solo dodici giorno dopo Babbo Natale passa a fare il bis. Ora, non voglio sottolineare il fatto che ai miei tempi passava solo e soltanto Santa Lucia, che lanciava mandarini in testa a noi infanti gridando “e che la cule!”, ma Babbo Natale è un autentico usurpatore su scala mondiale. Propongo che, ogni qual volta un uomo vestito di rosso con la barba bianca e una slitta di renne volanti cerchi di penetrare nei nostri confini, sia noi garantita la possibilità sparargli con le carabine di cui sopra. Ritengo che la sua figura andrebbe sostituita con la ben più autarchica Beata Paola e la slitta con un monopattino trainato dal vecchio cervo imbalsamato che era all’ingresso del comune vecchio e che non so dove sia finito.

In fede

Michele Mari

Calcio Elementare

Calcio Elementare

Guardo con una certa compassione i bambini delle elementari che razzolano in un’aia di ghiaietta sottile dietro le loro aule, negato l’antico ludo calcistico dalle angustie della lingua di giardino nella quale si ritrovano a passare la ricreazione. Io le elementari non le ho fatte moltissimo tempo fa, ma le ho fatte in un’altra sede, dove non solo c’era lo spazio per giocare a calcio, ma c’erano ben due porte vere, chiaramente senza rete, porte che parevano gigantesche quando si era in prima e normali in quinta. Il problema, in ogni caso, non si poneva, giacché fino alla quarta classe non si poteva neanche immaginare di mettere piede sul campo di terra e sassi appuntiti che era di dominio assoluto dei bambini più grandi. Il privilegio di giocarci veniva accordato soltanto per il raggiungimento dell’età necessaria o, in casi del tutto straordinari, ai calciatori notevoli di quarta. Passare da quel campo durante il terzo anno di elementari significava come minimo un futuro radioso, perlomeno in C2, ma richiedeva una dispensa scritta dai capitani delle quattro sezioni, da ratificarsi all’unanimità; l’evento si è verificato assai raramente e catalizzava sul piccoletto grandi attenzioni e anche falli piuttosto violenti, vista la minaccia alla stabilità del sistema che egli rappresentava.

In realtà anche i più piccoli potevano giocare, era sufficiente essere abbastanza scorretti da picchiare le bambine e cacciarle dal campo di pallavolo, o anche soltanto metterle in fuga agitando ramoscelli intinti nello sterco di qualche animale (o nel proprio), togliere la rete e improvvisare le porte con le giacche. Il campo in questo caso era in terra, chiazze di erba coraggiosissima e gramigna e aveva le dimensioni di quello da pallavolo, quindi ci si poteva giocare in una trentina al massimo. L’alternativa per chi non temeva gli infortuni e le botte era il campo in cemento, che era in origine un campo da basket, addirittura con le righe e i canestri; visto che nessuno aveva mai sentito parlare di basket (erano gli anni precedenti l’avvento dell’NBA su Telemontecarlo), nessuno aveva una vaga idea delle regole escluso il rudimentale concetto che un oggetto dovesse passare attraverso il canestro e che, a maggior scorno, non c’era nessun pallone da basket, il campo veniva utilizzato per praticare l’unico sport conosciuto, cioè il calcio, usando come porta un palo del canestro e una giacca, con notevole risparmio in termini di abbigliamento. In altre aree del grande cortile c’erano spazi sufficienti per altri match ad una sola porta, per il banale “passaggi e tiri in porta”, il torello o per altre discipline che contemplassero la necessità di calciare una sfera.

Nei campi senza porte il problema maggiore era costituito dall’arbitrarietà dell’altezza della traversa, in genere stabilita col parametro “una spanna sopra il punto fin dove il portiere riesce a saltare”. Ogni volta che la palla passava sopra il portiere il gioco si interrompeva parecchi minuti per decidere se la palla fosse passata o meno sotto la traversa. In questi casi, il portiere perfetto era ciccione, basso e senza alcuna capacità di elevazione, in grado cioè di coprire la larghezza dell’ipotetica porta e di abbassare la traversa all’inverosimile. Quando la disputa iniziava a diventare troppo lunga, serviva un giudice arbitro per dirimere la questione, e si chiedeva alla maestra, la quale non aveva visto niente e decretava quasi sempre la rete, specie se gliela andava a chiedere un bimbo bravo. Ricordo con sgomento una volta in cui la palla era passata piuttosto vicino alla traversa immaginaria: in questi casi, per evitare la lite, conveniva gridare per primi se era rete o no, e poi vedere gli sviluppi. Salomonicamente, gridai “traversa piena!”, e tutti mi guardarono come la gente dell’epoca guardava Galileo. I compagni di gioco, stupiti, si dissero d’accordo e convennero che la soluzione adeguata sarebbe stata quella di simulare il rimbalzo sulla traversa; uno si mise in groppa ad un altro e da lì sparò la palla dal petto verso l’esterno, poi scese e ricominciò a giocare.

Un’altra situazione temibile, una tegola psicologica che poteva abbattere una squadra, era il verificarsi delle condizioni di “troppo vicino, troppo forte”, in virtù delle quali un gol esteticamente pregevole poteva essere annullato su basi etiche. In questi casi era il portiere ad avere voce in capitolo: nel caso in cui ritenesse le proprie possibilità di intervento annullate dalla vicinanza o dalla potenza del tiro, faceva ricorso, e si ricominciava con un rinvio. A nulla valevano le proteste del marcatore che spesso, per ripicca, si sedeva su un muretto a mugugnare, dicendo “io con voi non ci gioco più, che mi annullate tutti i gol”. In rari casi, prevaleva il carisma dell’attaccante e il gol veniva ugualmente convalidato: in queste situazioni di solito era il portiere a sedersi sullo stesso muretto dicendo “io con voi non ci gioco più, che tirate forte e non me le fate parare”.

Sul campo centrale, quello con le porte, vigevano regole approssimative rispetto a quelle del football, ma rigidissime nella loro struttura. La regola numero uno era che il portiere doveva avere i guanti, di qualsiasi tipo, ma guanti. Non era raro vedere portieri improvvisati giocare con guanti di lana, o da sci, fino a metà giugno. I guanti non erano solo da regolamento, ma si credeva conferissero dei poteri a chi li portava, una sorta di protezione contro i gol, rendendo la porta decisamente più sicura. Talvolta il portiere era chi, quel giorno, aveva i guanti. La seconda regola era sulle linee, che non erano segnate: per lati esterni ci si basava su elementi ambientali, dal momento che erano delimitati da due filari di alberi giganti le cui radici hanno stroncato più carriere di Pasquale Bruno. Per le linee di fondo aiutavano le porte, ma l’ultima parola spettava al portiere o a un segnalinee, in genere uno che era malato o una ragazzina innamorata di qualche giocatore e obbligata a rendersi utile. La regola tre era che si giocava due sezioni per parte, che le squadre potevano essere composte da non più di venti giocatori e che nel caso una squadra avesse un giocatore in meno poteva usufruire del portiere volante. Ciò significava che era concesso all’estremo difensore di potersi allontanare a suo piacimento dall’area, mentre l’altro non poteva uscire nemmeno con l’alluce. Questo, in genere, portava un ulteriore vantaggio alla squadra in sovrannumero, perché lontano dall’area veniva meno il potere dei guanti e il portiere cadeva vittima di errori grossolani lasciando dietro di sé la porta tristemente incustodita. Prima del fischio d’inizio, l’urlo stentoreo del leader, “via!”, era d’uopo accordarsi sull’applicazione o meno della “regola del portiere”, quella che non permette all’estremo di raccogliere con le mani un retropassaggio volontario.

Dopo il fischio d’inizio si levava una nube di polvere, e le maestre, dal loro terrazzo panoramico, non potevano sapere cosa stesse succedendo sul campo. Finché le squadre non si chetavano un po’, non c’era possibilità di vedere dove fosse il pallone e sovente i componenti di una fazione si ritrovano nella metacampo avversaria, e viceversa, mentre la sfera era ancora sul cerchio di centrocampo. A questo punto il capitano della squadra, quello che “fa calcio”, invitava i colleghi a organizzarsi e a muoversi con più raziocinio, con una frase sempre uguale, che in sé riassumeva tutte le sue nozioni di tattica: “Oh, non correte tutti dietro al pallone!”. Non era chiaro dove bisognasse stare, perso l’unico punto di riferimento, così ci si spargeva per il campo, confondendo calcio e Risiko, conquistando zone del campo inutili e sconosciute come la Kamchatcka. I giocatori migliori erano in grado di attraversare il campo, palla al piede, senza perdere nemmeno un contrasto, tranne nel caso in cui si parasse di fronte a loro un ripetente o uno di quelli già piuttosto cresciuti, che si disinteressava del pallone e abbatteva subito l’avversario, non tanto con l’intento di fermarlo quanto piuttosto con l’intenzione di fargli il più male possibile. La non sussistenza della regola dell’off-side, regola chiara solo ai bambini dotati di un’intelligenza più vivace, sparuti e spesso non interessati al ludo piedatorio, era alla base del ruolo di “uccello da rapina”, il superattacante che non serve assolutamente a nulla se non a toccare una palla che stava già andando in rete, fregiandosi poi della marcatura ed esultando in maniera assolutamente non consona. Ne ricordo uno che passava la partita appoggiato sul palo a chiacchierare col portiere avversario, e poi, quando la palla transitava nella sua zona, la toccava di punta quel tanto che si sentisse un rumorino. Appena la palla varcava la linea di porta, correva per il campo emettendo grugniti di giubilo e agitando la maglietta. Il portiere raccoglieva la palla e nella maggior parte dei casi insultava il marcatore, poi se la prendeva con un difensore gridandogli: “Dovevi dirmelo che quello lì non stava con noi!”.

Tutti i giocatori, quale che fosse il campo su cui si erano immolati, rientravano alla spicciolata nell’edificio scolastico quando una bambina faceva il giro del cortile gridando: “Quar-ta-cì-in-classe”, o “Quin-ta-dì-in-classe”, e via così. Rientravano, ma le vesti lacerate, le ginocchia coperte da arcipelaghi di croste o meglio ancora insanguinate, la polvere depositata su tutto il corpo, parlavano per loro: avevano giocato.

Diario dello studente fuorisede

Diario dello studente fuorisede

Da circa un anno manco dalla città dove ho passato il periodo universitario, Bologna. Ricordo così il primo approccio, con questo testo scritto dopo pochi mesi passati a convivere  in appartamento con due chierichetti e due tossicodipendenti. Quell’anno, per inesperienza o per chissà che altro, fui una via di mezzo. Lo ricordo con orrore e nostalgia.

SET/OTT: L’anno accademico inizia sotto i migliori auspici, la casa è un appartamento misto, due donne e tre uomini, gente amichevole. Si pranza e si cena insieme, c’è un cartello che indica i turni da rispettare per lavare i piatti e i pavimenti. La casa è lustra, viene affisso qualche manifesto per dare un tocco di colore. Gli armadietti pullulano di generi alimentari, c’è abbondanza e sempre gente che va a fare la spesa.

NOV/DIC: Cominciano i primi esami. L’atmosfera è tesa, non ci si incontra quasi mai a pranzo e a cena, i piatti restano nel lavello per settimane. Cominciano a far capolino alcuni scarafaggi, che vengono però avvelenati. Nel bagno è più facile sporcarsi che lavarsi. La roba da mangiare scarseggia e nessuno ha mai voglia o tempo di cucinare. La camera delle donne sembra un bazar di Kabul: oggetti di cui la maggioranza degli uomini ignora l’esistenza giacciono in ogni angolo dalla stanza e formano un tappeto. Nella camera degli uomini si verifica il fenomeno “Fontana di Trevi”: le monete cadono dalle tasche dei calzoni e quando una buona anima scopa, oltre alla polvere raccoglie 12-13 Euro in vari tagli da 2-5-10 cents e nell’originale formato di 3 cents, nato dall’unione di due monete da 2 e da 1, recante nel verso, per motivi non trasparenti, l’effige di Platinette. Oltre alla paletta per pulire serve una carriola.

FEB/MAR: Dopo la pausa di Gennaio, l’appartamento ritorna a vivere a Febbraio: i piatti sono sporchi da Dicembre e il controllo è stato assunto ad interim da un insetto a sei zampe e due teste, molto somigliante a Calderoli, che deve essere abbattuto a fucilate. Altri scarafaggi resistono agli assalti umani e proliferano nella zuccheriera. I generi alimentari scarseggiano: si mangia solo pasta al pomodoro o al tonno, o insieme. In bagno il water ha preso vita e si sposta continuamente trascinando con sé metri di tubazioni. Vengono chiamati idraulico ed esorcista, ma alla fine l’idraulico viene posseduto dal demonio e l’esorcista fagocitato dal water. In camera dei maschi si verifica il fenomeno dei cerchi nel grano, che nel frattempo è cresciuto copioso sul pavimento, in maniera misteriosa.

APR/MAG: con la bella stagione nessuno torna mai a casa. Gli scarafaggi instaurano una convivenza pacifica e dividono con gli inquilini il conto della spesa e le bollette. Sul balcone nascono misteriose piantine transgeniche dall’incrocio fra i mozziconi di sigaretta e il basilico. La camera delle donne comincia ad assomigliare ad un deposito di scarti industriali e le abitanti rimangono sbarrate dentro dall’improvviso cedimento di una pila di oggetti disomogenei alta sei metri, posta a mo’ di colonna d’Ercole dietro la porta. Dagli uomini, che sanno approfittarne, si è aperta una fabbrica di pasta. Ma ormai le lezioni stanno per finire… ci si organizza per le pulizie di fine anno. L’acqua per tirare lo straccio contiene: antiruggine, sgrassante, acido muriatico e solforico, alcool etilico, whisky (che non può far male), mirra, tritolo e gatorade. La casa ritorna a splendere, poi esplode.

Modena, stazione di Modena

Modena, stazione di Modena

Modena, stazione di Modena.

Il treno interregionale 2138 proveniente da Milano Centrale diretto ad Ancona arriverà con trenta minuti di ritardo. Ci scusiamo con i gentili utenti per il disagio.

Ci scusiamo inoltre perché piove ed è stata una giornata abbastanza di merda, ma questo esula dalle nostre competenze. Anche per noi non è stato il massimo.

Trenitalia vi è vicina anche per tutto il resto di casini che avete nella vita, e che vi sembrano più irritanti dei treni in ritardo. La responsabilità è probabilmente di qualche donna, politico, padrone o animale da appartamento, ed è al di là di quello che la nostra azienda può fare per voi.

Per chi domenica scorsa abbia viaggiato in scompartimento con almeno tre brutte fighe, oggi è disponibile un rimborso del viaggio se presenterete le foto delle ragazze. In ogni caso, Trenitalia si scusa per l’inconveniente. Purtroppo anche i cessi possono viaggiare. Stiamo procedendo con un ricorso al TAR del Lazio per impedire loro di spostarsi sui nostri treni.

Trenitalia ricorda inoltre che dal 15 di ottobre sarà vietato salire sugli Intercity Plus senza prenotazione, insultare lo speaker delle stazioni e portare con sé iguane da passeggio.

Si ricorda che è vietato oltrepassare la linea gialla in attesa dei treni, la linea rossa in caso di attacco nemico, la linea verde su Rai Uno, la linea per chi pensa di ingrassare. Si ricorda pertanto che le porte dei nostri Eurostar sono larghe un metro e venti. Per chi sorpassasse tale larghezza, è previsto un rimborso del biglietto.

È vietato attraversare i binari, servirsi degli appositi sottopassaggi, che oggi sono allagati per pioggia. Ci scusiamo con i clienti per il disagio: vi forniremo stivali da pesca e una canna, chissà mai che peschiate un Espresso per Girgenti in ritardo di mezzo secolo.

I bagagli lasciati incustoditi verranno sottoposti a controlli di polizia, per cui, nel caso siano esplosivi, fateli saltare prima di allontanarvi, altrimenti non sareste in grado nemmeno di essere un kamikaze rispettabile. Trenitalia ringrazia gli eventuali attentatori suicidi presenti per l’interessamento.

Il treno Intercity 1580 proveniente da Matera diretto a Parigi Gare de l’Est transiterà via Vienna-Düsseldorf-Strasburgo per guasti sulla linea e fermerà al binario 4 e un terzo anziché al binario 38 barrato, con un ritardo quantificabile intorno alla cifra che decidete voi visto che nessuno di questi messaggi è mai stato sentito al di fuori della vostra scatola cranica.

Trenitalia vi ricorda, comunque, che la vita non vi perseguiterà in eterno.

De Scrocco

De Scrocco

Ritrovato in un antro nascosto di un codice della biblioteca Vaticana, ecco a voi, tradotto da Alfonso Traina, il tredicesimo libro dei dialoghi di Seneca. Purtroppo ci è giunto in forma mutila, ma quello che ci rimane è più che sufficiente per capire ancora più nel profondo l’animo del grande filosofo.

I

1 A te, o Lucilio, migliore tra gli uomini, voglio insegnare l’arte del vivere approfittando degli altri. Infatti sempre ci affanniamo per portare a casa il danaro, e poi ci roviniamo la vita per conservarlo, ma vi è una libertà migliore di quella di cui gode colui il quale, libero da apprensioni, campa allegramente coi soldi degli altri? Questo, Lucilio, devi tenere bene a mente: libero è colui che scrocca. Egli non libera soltanto se stesso, ma anche coloro di cui s’approfitta, facendo apparire loro il denaro meno importante e più liberalmente spendibile. 2 Ogni giorno è un giorno strappato alla morte, e pertanto da vivere appieno: pensare ai propri soldi non fa altro che rovinarcelo. Come colui che, dopo una giornata passata nei campi a sudare viene chiamato alla battaglia, così ci comportiamo per accumulare una montagna di soldi. Ma quando li ha già un altro, a che serve averne anche noi? Compreresti mai un libro se lo possiede un tuo amico che te lo presterebbe sempre? Lasciamo che gli altri si dannino per la loro misera pensione: tu, o Lucilio, scrocca, scrocca sempre! Potrai innalzarti verso il cielo e osservare dall’alto il nostro mondo. Noterai così la sua infima piccolezza e dirai: “Perché sono stato così sciocco da conservare un mucchietto di monete che da qui non si vedrebbe nemmeno se avessi la vista di un’aquila? Quanto tempo ho perso  per scavarmi un pozzo, quando potevo attingere l’acqua da quello del mio amico!” 3 Bisognerà chiedersi: cos’è importante? Importante, Lucilio, è essere libero dalle preoccupazioni per potersi dedicare alle arti liberali. Importante è non pensare al denaro, non pensare a come accumularne e a come non sperperarne. Cos’è importante? Importante è imparare ad approfittare al meglio del denaro, quello degli altri. Cos’è importante? Importante è disprezzare la ricchezza, vivere modestamente, non curarsi degli affari, ma convincere gli altri a farlo per poter aggrapparsi alla loro schiena. Cos’è Dio? Boh, che cacchio ne so, e comunque non c’entra nulla. Quello che è certo è che se Dio è quello che è, è perché è uno scroccone. E ricorda che tu, se lo vuoi, puoi diventare Dio!

II

1 Affinchè tutte queste parole abbiano per te un senso pratico, ti insegnerò alcuni stratagemmi che è bene osservare per scroccare ed avvicinarsi a Dio. Quando si va in vacanza, ha forse un senso portarsi venti tubetti di dentifricio? Quando si va alla taverna, fai in modo che uno solo abbia con sé i soldi, e fai in modo di non essere mai tu. Se si propone di fare alla romana, dopo che l’amico ha pagato, esibisci il biglietto del taglio più enorme che esista, in modo che nessuno abbia il resto da darti. Altrimenti, raccogli i soldi di tutti prima e bara di poco sul resto di ognuno: i resti di tutta la tua compagnia pagheranno anche per te, visto che nessuno fa mai lotte per pochi centesimi. Sii sempre l’ultimo a pagare, e se sei solo ricordati di questo: molte monete non vengono mai contate da una barista. Oppure, comincia a contarle appoggiandole sul bancone e sostieni che siano finite proprio ai tre quarti della somma intera: poi dovrai dire “altrimenti ho solo quelli”, e tirare fuori una banconota enorme. 2 Ricorda che le donne per natura mangiano di meno degli uomini: mediamente, ogni cinque donne si guadagna una pizza intera fatta coi loro avanzi. Ricorda che i grissini sono gratis, anche quelli degli altri tavoli. Ricorda che qualsiasi omaggio non deve essere mai rifiutato. 3  Se farai sempre così, riuscirai a risparmiare sempre. Ma ricorda di farlo senza che nessuno se ne accorga, perché ti prenderanno per avido. Come colui il quale getta lo scudo e scappa dalla battaglia, così tu avrai salva la pelle: scappando quando si prensentano i problemi veri: quando sarai elevato alle stelle vedrai che questi problemi non erano poi così grandi rispetto all’universo intero.

III

1 Fatti da mangiare, o Lucilio, e vedrai come sei bravo: ma sappi che stare ore ed ore a sfornellare è noioso, e tu lo sai già. Sposati, dunque, e fai fare tutto alla tua moglie. È lì apposta. Ma se non vuoi condivedere la rottura di balle per tutta l’esistenza con un altro essere che gira per casa, basterà scroccare: lo scrocco è la soluzione più semplice per tutto. A cena fatti invitare. A pranzo fatti ospitare. A merenda, fatti trovare sotto casa dell’amico. Mai nessuno nega un panino ad un amico. Poi, quando entri in casa, fai incetta di libri, suppellettili, cancelleria e fattele prestare dal tuo amico. Dì: “Te le renderò al più presto”. Tutti e due sapete che non sarà così. 2 Più tempo una cosa prestata passa nelle mani di un altro, più il proprietario si dimentica di averla avuta. Questo gioca tutto a tuo vantaggio, o Lucilio…

A questo punto il codice si interrompe. Alcune pagine sono state strappate. Secondo Dan Brown, che sta scrivendo il suo prossimo libro, “Il codice che io ci ho provato ma non l’ho mica capito”, sarebbe stato Leonardo ad usare quelle pagine per pulirsi il culo.