Guardo con una certa compassione i bambini delle elementari che razzolano in un’aia di ghiaietta sottile dietro le loro aule, negato l’antico ludo calcistico dalle angustie della lingua di giardino nella quale si ritrovano a passare la ricreazione. Io le elementari non le ho fatte moltissimo tempo fa, ma le ho fatte in un’altra sede, dove non solo c’era lo spazio per giocare a calcio, ma c’erano ben due porte vere, chiaramente senza rete, porte che parevano gigantesche quando si era in prima e normali in quinta. Il problema, in ogni caso, non si poneva, giacché fino alla quarta classe non si poteva neanche immaginare di mettere piede sul campo di terra e sassi appuntiti che era di dominio assoluto dei bambini più grandi. Il privilegio di giocarci veniva accordato soltanto per il raggiungimento dell’età necessaria o, in casi del tutto straordinari, ai calciatori notevoli di quarta. Passare da quel campo durante il terzo anno di elementari significava come minimo un futuro radioso, perlomeno in C2, ma richiedeva una dispensa scritta dai capitani delle quattro sezioni, da ratificarsi all’unanimità; l’evento si è verificato assai raramente e catalizzava sul piccoletto grandi attenzioni e anche falli piuttosto violenti, vista la minaccia alla stabilità del sistema che egli rappresentava.
In realtà anche i più piccoli potevano giocare, era sufficiente essere abbastanza scorretti da picchiare le bambine e cacciarle dal campo di pallavolo, o anche soltanto metterle in fuga agitando ramoscelli intinti nello sterco di qualche animale (o nel proprio), togliere la rete e improvvisare le porte con le giacche. Il campo in questo caso era in terra, chiazze di erba coraggiosissima e gramigna e aveva le dimensioni di quello da pallavolo, quindi ci si poteva giocare in una trentina al massimo. L’alternativa per chi non temeva gli infortuni e le botte era il campo in cemento, che era in origine un campo da basket, addirittura con le righe e i canestri; visto che nessuno aveva mai sentito parlare di basket (erano gli anni precedenti l’avvento dell’NBA su Telemontecarlo), nessuno aveva una vaga idea delle regole escluso il rudimentale concetto che un oggetto dovesse passare attraverso il canestro e che, a maggior scorno, non c’era nessun pallone da basket, il campo veniva utilizzato per praticare l’unico sport conosciuto, cioè il calcio, usando come porta un palo del canestro e una giacca, con notevole risparmio in termini di abbigliamento. In altre aree del grande cortile c’erano spazi sufficienti per altri match ad una sola porta, per il banale “passaggi e tiri in porta”, il torello o per altre discipline che contemplassero la necessità di calciare una sfera.
Nei campi senza porte il problema maggiore era costituito dall’arbitrarietà dell’altezza della traversa, in genere stabilita col parametro “una spanna sopra il punto fin dove il portiere riesce a saltare”. Ogni volta che la palla passava sopra il portiere il gioco si interrompeva parecchi minuti per decidere se la palla fosse passata o meno sotto la traversa. In questi casi, il portiere perfetto era ciccione, basso e senza alcuna capacità di elevazione, in grado cioè di coprire la larghezza dell’ipotetica porta e di abbassare la traversa all’inverosimile. Quando la disputa iniziava a diventare troppo lunga, serviva un giudice arbitro per dirimere la questione, e si chiedeva alla maestra, la quale non aveva visto niente e decretava quasi sempre la rete, specie se gliela andava a chiedere un bimbo bravo. Ricordo con sgomento una volta in cui la palla era passata piuttosto vicino alla traversa immaginaria: in questi casi, per evitare la lite, conveniva gridare per primi se era rete o no, e poi vedere gli sviluppi. Salomonicamente, gridai “traversa piena!”, e tutti mi guardarono come la gente dell’epoca guardava Galileo. I compagni di gioco, stupiti, si dissero d’accordo e convennero che la soluzione adeguata sarebbe stata quella di simulare il rimbalzo sulla traversa; uno si mise in groppa ad un altro e da lì sparò la palla dal petto verso l’esterno, poi scese e ricominciò a giocare.
Un’altra situazione temibile, una tegola psicologica che poteva abbattere una squadra, era il verificarsi delle condizioni di “troppo vicino, troppo forte”, in virtù delle quali un gol esteticamente pregevole poteva essere annullato su basi etiche. In questi casi era il portiere ad avere voce in capitolo: nel caso in cui ritenesse le proprie possibilità di intervento annullate dalla vicinanza o dalla potenza del tiro, faceva ricorso, e si ricominciava con un rinvio. A nulla valevano le proteste del marcatore che spesso, per ripicca, si sedeva su un muretto a mugugnare, dicendo “io con voi non ci gioco più, che mi annullate tutti i gol”. In rari casi, prevaleva il carisma dell’attaccante e il gol veniva ugualmente convalidato: in queste situazioni di solito era il portiere a sedersi sullo stesso muretto dicendo “io con voi non ci gioco più, che tirate forte e non me le fate parare”.
Sul campo centrale, quello con le porte, vigevano regole approssimative rispetto a quelle del football, ma rigidissime nella loro struttura. La regola numero uno era che il portiere doveva avere i guanti, di qualsiasi tipo, ma guanti. Non era raro vedere portieri improvvisati giocare con guanti di lana, o da sci, fino a metà giugno. I guanti non erano solo da regolamento, ma si credeva conferissero dei poteri a chi li portava, una sorta di protezione contro i gol, rendendo la porta decisamente più sicura. Talvolta il portiere era chi, quel giorno, aveva i guanti. La seconda regola era sulle linee, che non erano segnate: per lati esterni ci si basava su elementi ambientali, dal momento che erano delimitati da due filari di alberi giganti le cui radici hanno stroncato più carriere di Pasquale Bruno. Per le linee di fondo aiutavano le porte, ma l’ultima parola spettava al portiere o a un segnalinee, in genere uno che era malato o una ragazzina innamorata di qualche giocatore e obbligata a rendersi utile. La regola tre era che si giocava due sezioni per parte, che le squadre potevano essere composte da non più di venti giocatori e che nel caso una squadra avesse un giocatore in meno poteva usufruire del portiere volante. Ciò significava che era concesso all’estremo difensore di potersi allontanare a suo piacimento dall’area, mentre l’altro non poteva uscire nemmeno con l’alluce. Questo, in genere, portava un ulteriore vantaggio alla squadra in sovrannumero, perché lontano dall’area veniva meno il potere dei guanti e il portiere cadeva vittima di errori grossolani lasciando dietro di sé la porta tristemente incustodita. Prima del fischio d’inizio, l’urlo stentoreo del leader, “via!”, era d’uopo accordarsi sull’applicazione o meno della “regola del portiere”, quella che non permette all’estremo di raccogliere con le mani un retropassaggio volontario.
Dopo il fischio d’inizio si levava una nube di polvere, e le maestre, dal loro terrazzo panoramico, non potevano sapere cosa stesse succedendo sul campo. Finché le squadre non si chetavano un po’, non c’era possibilità di vedere dove fosse il pallone e sovente i componenti di una fazione si ritrovano nella metacampo avversaria, e viceversa, mentre la sfera era ancora sul cerchio di centrocampo. A questo punto il capitano della squadra, quello che “fa calcio”, invitava i colleghi a organizzarsi e a muoversi con più raziocinio, con una frase sempre uguale, che in sé riassumeva tutte le sue nozioni di tattica: “Oh, non correte tutti dietro al pallone!”. Non era chiaro dove bisognasse stare, perso l’unico punto di riferimento, così ci si spargeva per il campo, confondendo calcio e Risiko, conquistando zone del campo inutili e sconosciute come la Kamchatcka. I giocatori migliori erano in grado di attraversare il campo, palla al piede, senza perdere nemmeno un contrasto, tranne nel caso in cui si parasse di fronte a loro un ripetente o uno di quelli già piuttosto cresciuti, che si disinteressava del pallone e abbatteva subito l’avversario, non tanto con l’intento di fermarlo quanto piuttosto con l’intenzione di fargli il più male possibile. La non sussistenza della regola dell’off-side, regola chiara solo ai bambini dotati di un’intelligenza più vivace, sparuti e spesso non interessati al ludo piedatorio, era alla base del ruolo di “uccello da rapina”, il superattacante che non serve assolutamente a nulla se non a toccare una palla che stava già andando in rete, fregiandosi poi della marcatura ed esultando in maniera assolutamente non consona. Ne ricordo uno che passava la partita appoggiato sul palo a chiacchierare col portiere avversario, e poi, quando la palla transitava nella sua zona, la toccava di punta quel tanto che si sentisse un rumorino. Appena la palla varcava la linea di porta, correva per il campo emettendo grugniti di giubilo e agitando la maglietta. Il portiere raccoglieva la palla e nella maggior parte dei casi insultava il marcatore, poi se la prendeva con un difensore gridandogli: “Dovevi dirmelo che quello lì non stava con noi!”.
Tutti i giocatori, quale che fosse il campo su cui si erano immolati, rientravano alla spicciolata nell’edificio scolastico quando una bambina faceva il giro del cortile gridando: “Quar-ta-cì-in-classe”, o “Quin-ta-dì-in-classe”, e via così. Rientravano, ma le vesti lacerate, le ginocchia coperte da arcipelaghi di croste o meglio ancora insanguinate, la polvere depositata su tutto il corpo, parlavano per loro: avevano giocato.