La finale
Cronaca di fantasmi del calcio
Il racconto faceva originariamente parte di un mio vecchio manoscritto, “Cronache di un cronista di prima categoria”, in attesa di rimetterci mano e di ripubblicarlo per intero.
Ricordo la finale del campionato allievi regionale con un certo orgoglio.
Avevamo stravinto il girone e sbaragliato la concorrenza provinciale. La finale del torneo giovanile delle società dei dilettanti si giocava contro una squadra di Varese o di quelle parti, da disputarsi a Milano, che per noi era circa come andare in Patagonia o in Tibet. Partimmo una mattina di timida estate dopo due settimane di allenamenti e rigore morale, decisi a vincere. Gli avversari erano descritti come dei mostri, dei brasiliani ibridati con dei tedeschi e scattanti come africani. Noi eravamo furbi e massicci, ma meno aggraziati. Di loro non so, ma solo uno di noi ebbe poi una carriera da calciatore vero, onesto e piccolo professionista: il 7, Valbusa, arrivò a giocare in C1 con l’Alessandria fino a quando un intervento caino di un certo Bandini della Spal gli disintegrò l’apparato locomotore e la carriera. Per il resto eravamo truppe raccogliticce, futuri fornai, muratori, agronomi.
La corriera che la società aveva noleggiato per portarci alla trasferta, noi atleti e un pugno di supporters, scatarrava come il nonno di Piva, il terzino destro, che ci insultava sempre perché in casa non vincevamo mai, soltanto in trasferta prendevamo i due punti, a suo avviso per fargli dispetto, a lui che veniva fedelmente a vederci solo al paese. Emanava un fumo nero di toscano, e questo era il secondo tratto in comune tra la corriera e il nonno. Il nonno però non puzzava di vomito, perlomeno non sempre. Ci fermammo al Mottagril Pavesi vicino a Travagliato per riposarci. L’autista, un tizio di Brescia dalla parlata incomprensibile, telefonò dalla cabina a gettoni a sua moglie, per dirle che aveva trovato nel Mottagril uno di quei pupazzoni giganti di cui lei era collezionista, e col suo consenso l’avrebbe comprato. Al suo telefono rispose un estraneo che disse, rivolto alla moglie dell’autista: “Oh! Non mi avevi detto che eri sposata!”. L’autista ci rimase malissimo, comprò sei bottiglie di vino e si chiuse in bagno. Lo tirammo fuori dopo mezz’ora, dormiva e puzzava di cantina sociale. Di certo non era in condizioni di portarci a Milano. Il mister, Volpi, disse che lui aveva fatto il carrista nel battaglione S. Marco, sotto le armi, e se aveva guidato i carri armati, un pullman era cosa da nulla. Si mise al posto di guida scancherando e urlò: “Dai che andiamo!”. Ingranò la marcia e partì fortissimo all’indietro travolgendo una 500 in sosta. Bestemmiò, stavolta indovinò la prima e partimmo.
A Milano ci perdemmo più volte e ci presentammo giusto cinque minuti prima dell’appello dell’arbitro. Eravamo cotti e non avevamo potuto fare riscaldamento. Ci schierammo col solito modulo, che, viste le teorie attendiste e difensiviste di Volpi, era il suo personale 10 in linea, tutti piantati nell’area piccola. Quando vedemmo gli avversari, con le casacche a strisce orizzontali, rimanemmo molto impressionati: erano tutti molto più alti di noi, avevano molta più barba e il loro mister era un prete, Don Albino. Volpi disse che la partita era persa, perché noi avevamo bestemmiato durante tutto il campionato e se un dio esisteva avrebbe sicuramente aiutato loro. Aggiunse: “E Dio c’è, son sicuro!”, poi bestemmiò altre tre volte. Il primo tempo finì zero a zero, ma noi non avevamo toccato palla: il nostro portiere aveva fatto delle parate strepitose, allungandosi fino all’incrocio dei pali, ma non aveva voluto che ci complimentassimo con lui, perché era molto umile e stava facendo solo il suo mestiere. Il mister andava su e giù urlando a me di stare più aperto, al Gildo di stare più attento, al Bigio di stare più lungo e al Ciccio, che era in panchina, di andare a prendere da bere (cioè vino). All’ottantaseiesimo non avevamo ancora tirato in porta. Volpi disse: “Va bene, adesso tutti su!”, e tolse il libero per inserire una seconda punta, il Ciccio, che nell’andare a prendere il vino sul pullman l’aveva assaggiato, e gli era piaciuto, ma molto. Barcollando, per la sua imprevedibilità, risultò completamente immarcabile agli avversari. Ad un certo puntò si addormentò in piedi in mezzo all’area e un campanile spiovente di Valbusa, che aveva calcolato tutto vista la sua classe, lo colpì esattamente sulla testa. Ciccio cadde. Il portiere rimase sorpreso, e la palla gli passò alla destra, appoggiandosi nella rete. Ciccio fu portato in trionfo ancora tramortito, Volpi ordinò il catenaccio e noi lo tirammo fuori, frustando con questo per gli ultimi tre minuti le caviglie avversarie. Al triplice fischio, Don Albino si strappò il colletto bianco e cominciò a fustigare il loro 4, reo di aver lasciato Ciccio solo in mezzo all’area. Ci diedero la coppa e la medaglia, finimmo sulla prima pagina di sport della Gazzetta. Sulla strada di casa stappammo le altre bottiglie che c’erano sulla corriera e cantammo canzoni sconce, mentre si dice che Don Albino fece recitare il rosario e tre volte tutte le litanie dei santi ai poveri avversari.
Al ritorno la piazza ci celebrò da eroi, e la Ida offrì da bere a tutti.
Sulla corriera che emanava fumo nero per l’aria portammo a casa la coppa, l’odore dell’autista, il colletto di Don Albino, le bestemmie, la gloria, Ciccio, le maglie sudate, le barzellette che ci raccontammo, le storie del Gildo, l’età di quelle che allora non ci immaginavano di dover rimpiangere, i moduli di Volpi, i rubinetti rubati dallo spogliatoio (atto vandalico per il quale la coppa ci fu revocata, ma nessuno lo venne a sapere, nemmeno Don Albino, che era morto nel frattempo), i canti e certi fantasmi, fantasmi come le storie a metà tra il verso il falso, o quelle fatte più grosse di quello che erano in realtà, fantasmi come i ricordi.